Se i giovani si organizzano, si impadroniscono di ogni ramo del sapere e lottano con i lavoratori e gli oppressi, non c’è scampo per un vecchio ordine fondato sul privilegio e sull'ingiustizia. Enrico Berlinguer

giovedì 26 luglio 2012

Marcianise - Il centrosinistra si organizza in vista delle prossime competizioni elettorali

Nella serata del 24 luglio scorso si sono riuniti i partiti del centrosinistra per riprendere la discussione e la riflessione su una proposta politico – amministrativa da sottoporre alla città. Presenti i rappresentanti dell’API, IdV, PSI, SEL e Verdi. Nell’ambito della discussione  è stata evidenziata la necessità di continuare a monitorare l’azione amministrativa dell’attuale commissario cittadino.

E’ stata espressa con forza, inoltre, da parte di tutti  i presenti, la necessità di continuare a rivolgere l’attenzione e l’azione verso le questione che si presentano e che interessano nel quotidiano la nostra città. Non ultima la situazione, fortemente critica, dell’ospedale di Marcianise. In merito i presenti sono stati comunemente d’accordo sulla necessità di vigilare sull’applicazione del Piano Sanitario Regionale a  garanzia della tutela sanitaria dei cittadini del nostro territorio.

Durante la riflessione sono state avanzate diverse azioni da mettere in campo per costruire un programma che, tra l’altro, tenga  in debito conto i bisogni e le aspettative dei cittadini per la costruzione di una città vivibile.

Oltre alla necessità che si realizzino eventi che portino la cultura marcianisana a diventare fatto concreto e non chiacchiere, si è  convenuto sulla necessità di avere un momento di riflessione pubblica sulle ragioni che hanno determinato la crisi dell’ultima amministrazione comunale. Una riflessione a cui si invita, e si spera possa coinvolgere, l’intera cittadinanza, convinti che dall’analisi e riconoscimento degli errori del passato si costruisce un futuro più solido.

domenica 15 luglio 2012

Sinistra: il coraggio e la misura


Se oltrepassiamo il paranoico dibattito che si è aperto sulle alleanze tra i partiti in vista delle prossime scadenze elettorali italiane, ci accorgiamo che il tema vero è quale visione generale e quale idea di società siano adeguate per un cambiamento che non sia soltanto di facciata e che incida nelle condizioni materiali delle persone.

Tre questioni, tra le altre, si impongono: restituire credibilità ad una classe politica percepita come vecchia, inefficace, privilegiata e corrotta; riportare sotto il controllo democratico i meccanismi impazziti della finanza e dei mercati; migliorare la qualità dell’esistenza di quei milioni di soggetti umani che si arrabattano per non perdere la dignità, a partire dai giovani mortificati dal precariato.

Per affrontare questi problemi enormi, non c’è bisogno né di splendidi isolamenti dalle cui vette dispensare le magiche ricette né di larghe convergenze entro cui fare convivere chi pensa che la soluzione sia aggredire le diseguaglianze con chi sostiene che lo stato sociale debba sempre più assottigliarsi fino a scomparire.
C’è bisogno, invece, di chiarezza sui contenuti e, contemporaneamente, di formare una massa critica intorno ad un discorso e ad una proposta che siano in grado di parlare al Paese e di raccogliere il necessario consenso per vincere. E questo non lo si fa con gli schemi astratti tra progressisti e moderati o con l’infantilismo politico del trasporre automaticamente certi modelli in contesti altri, bensì attrezzando un percorso che coinvolga tutti i segmenti che compongono l’Italia, specialmente quelli poco o mai ascoltati.

Una rotta del genere non può non partire da un giudizio severo sul Governo Monti e da una presa di distanza dalle sue politiche per marcare una cifra culturale opposta.
Il tratto ideologico ed unificante delle riforme promosse dai cosiddetti tecnici (pensioni, mercato del lavoro, tagli lineari ai servizi pubblici travestiti da spending rewiew) consiste nel non considerare, e conseguentemente punire, le responsabilità di chi la crisi l’ha prodotta a danno di chi la sta pagando sulla propria pelle, ovvero nella rimozione delle differenze tra la minoranza che continua ad accumulare e sperperare, nonostante la crisi, e la maggioranza che ha perso il lavoro o fa fatica ad arrivare a fine mese.

Un esempio concreto di questo modo d’agire del Governo: preferire l’aumento dell’Iva, che colpisce indistintamente, alla tassazione delle rendite e delle transazioni finanziarie e dei grandi patrimoni (in luogo, ad esempio, dell’Imu sulla prima casa) o ad una lotta senza quartiere all’evasione fiscale, all’economia sommersa, ai capitali esportati all’estero.

Del resto, non che ci si potesse aspettare qualcosa di diverso da un esecutivo formato, prevalentemente, da liberali moderati (con qualche venatura di paternalismo) che oscillano tra una riverenza ossequiosa ai mercati e un calcolato vuoto di contenuti nel contrastare le situazioni di chi sta peggio.

Ciò nonostante, è opinione diffusa che Monti abbia conseguito brillanti risultati al recente vertice internazionale di Bruxelles e che la competenza sua e della sua squadra sarà indispensabile anche per la fase politica successiva; questa è la convinzione di fatto e con essa bisogna scontrarsi, non per strenua testimonianza ma per impostare meglio il processo sopra indicato.

Occorre, al più presto, un luogo di dibattito pubblico e di costruzione di proposte che tenga insieme chi crede che sia possibile definire i tratti essenziali di un programma alternativo al liberismo e al populismo, che riattivi i movimenti (dei precari, delle donne, per la libertà d’informazione, per i beni comuni, per i diritti del lavoro e civili), la cittadinanza impegnata, coloro che credono che la democrazia rappresentativa vada integrata con robuste iniezioni di democrazia diretta, i tantissimi amministratori virtuosi (non solo i sindaci!), quel popolo del centrosinistra che vota PD (oltre a quella parte che si identifica con SEL o IDV) e che ormai mostra palesi segnali d’insofferenza per il sostegno supino al Governo Monti e per le strategie confuse e attendiste in vista del futuro.

Un luogo che sia palestra per una classe dirigente giovane, colta e preparata e che intessa il dialogo perfino con esponenti autorevoli di questo stesso Governo, si pensi al Ministro alla Coesione Territoriale Fabrizio Barca ed alle sue idee fuori asse rispetto alle direttrici montiane.
Soltanto in questo modo potremo mandare in soffitta gli alchimisti della rincorsa ai moderati e raddrizzare le nostre sorti con sguardo lucido e coraggioso.

Giuseppe Morrone

sabato 14 luglio 2012

I sommersi e il salvato


“Prendo il giornale e leggo che di giusti al mondo non ce n’è”. Così iniziava il “Mondo in M7”, un brano musicale che scalò le classifiche. Era il 1966 e bastava infilare una moneta da 50 lire nel juke-box perché i bar del centro e della periferia delle città, si riempissero della voce di Adriano Celentano e si gonfiassero di indignazione. Il suo rap ante litteram soffiava sul fuoco che covava sotto la cenere. Eravamo ai preliminari della grande contestazione del ’68. Da allora la giustizia nel mondo non è aumentata, al contrario dell’assuefazione alle terribili notizie.

Mercoledì 11 luglio 2012, prendo il giornale e leggo che 54 immigrati provenienti da Tripoli sono morti in mare. Ma la notizia non fa grande clamore. Un naufragio di Costa Crociere fa più audience. Sono morti di sete, non annegati, come invece capitò a Fleba il fenicio, il fluttuare delle cui membra nelle acque marine è cantato da Thomas Stearn Eliot, rendendolo così eterno. Non esiste una classifica di morti terribili. Eppure morire di sete in una distesa d’acqua ci appare ancora più assurdo e mostruoso, come annegare in una pozzanghera nel deserto del Sahara. Solo che quest’ultimo è un paradosso mentale, l’altra una tragica realtà quotidiana.

L’acqua è un bene comune. Sì, ma a costo di grandi lotte e comunque non in mare. Là il non possesso traccia il confine tra la morte e la vita. Erano partiti in 55, uno solo può raccontare il progredire della micidiale disidratazione collettiva. Ma di che vita vivrà? I sommersi e il salvato. Primo Levi, in conclusione della sua splendida trilogia, scriveva che in fondo tutto quello che aveva voluto dire è che l’immane tragedia dell’olocausto, per il solo fatto di essere già accaduto, avrebbe potuto ripetersi. E’ vero, ma qui la tragedia si ripete con frequenza infinita. La bella stagione è amica della morte, ancor più della cattiva. 170 morti dall’inizio del 2012? Quelli sicuramente accertati. Ovvero non meno, ma quanti siano stati in realtà nessuno lo può realmente dire. E di tutto ciò resta solo qualche dichiarazione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Il nostro ministro Riccardi ha auspicato il rafforzamento del dialogo e della cooperazione. Altri neppure questo.

Qualcosa si è mosso nel nostro paese per regolarizzare le presenze di cittadini extracomunitari. Too little too late, direbbero gli inglesi. Intanto il mare nostrum continua funzionare come un cimitero liquido di capacità illimitate. La vecchia Europa sprofonda nella crisi creata dalle assurde regole imposte dalle elite che la comandano, mentre le giovani generazioni d’Africa muoiono di guerra, di fame, di sete. E’ il nuovo mondo, cui bisognerebbe ribellarsi, non più in M7, in G20.

Alfonso Gianni

Fonte: unita

Dal no al liberismo una nuova sinistra


La politica non può diventare la fabbrica dell’obbedienza, lo spazio senza alternative, il circoscritto reparto di una specializzazione tecnica. Per questo ho trovato la discussione aperta da Mario Tronti sull’Unità una vera e propria boccata d’aria, di fronte al dilagante conformismo di maniera. Tronti, seguito da Vendola ed altri autorevolissimi contributi, parla di noi, della sinistra e della sua soggettività politica, per parlare del mondo e delle cose che possono provare a trasformarlo. È un esercizio di onestà intellettuale che non appartiene ai tardi epigoni di Margaret Thatcher, che soleva dire, in spregio ai suoi oppositori, che solo con T.i.n.a. (There is no alternative – al liberismo – of course) avrebbe potuto affrontare i problemi del suo paese. È un vecchio vizio dei conservatori travestire d’oggettiva necessità le loro scelte. Neppure l’azzardo dell’affermazione della propria ragione contro il torto altrui, solo l’annullamento sistematico della legittimità dell’altro. Il pragmatismo liberista è vissuto di questa rendita e ha fagocitato progressivamente, con le sue leggi “oggettive” e il “neutro” interesse del mercato, la sfera dell’economia e poi quella della politica. Le parole di Tronti come pure quelle di Rosi Bindi, per dire di chi non viene dalla mia storia, hanno affrontato il problema da un’angolazione che critica il paradigma liberista, cosa che condivido profondamente.


Il tema è, quindi, individuare quale spazio per costruire un nuovo campo in cui far crescere le idee differenti dal “liberismo necessario”, di cui ci parlano in continuazione, e quali pratiche democratiche per rompere la principale conventio ad escludendumdei tempi nostri, quella delle persone. Per me l’oltrepassamento delle due sinistre, non la loro fusione frigida, parte da queste due ambizioni. Il primo terreno è quello europeo. La proposta degli Stati uniti d’Europa sta in piedi solo se si riuscirà a configurare un vero demos europeo. Per farlo non ci servono discussioni grottesche sulle identità, che per fortuna esistono e rappresentano una ricchezza, ma sulla possibilità di strutturare un patto di cittadinanza, la cui base non può che essere l’unificazione di politiche attive (welfare, energia, ambiente, diritti sindacali, politiche industriali, infrastrutture). Con ciò sarà più forte il coordinamento delle politiche fiscali e di bilancio. Questo è il primo terreno di convergenza che vedo tra noi, il Pd e tante forze sociali e civili, come viene giustamente esplicitato da Latorre e Vita. Proprio per praticare tale strada dobbiamo decidere se in Italia possa esistere una soggettività politica che contribuisca alla critica del paradigma liberista e che progetti una proposta di governo alternativa a quello esistente. Il Pse, che in Europa sta affrontando con serietà la critica al quindicennio neoliberista blairista, è il campo privilegiato di questa convergenza.

Per un tentativo del genere va archiviato Monti, il montismo e, aggiungerei, il tatticismo esasperante che ha introiettato ineluttabilmente l’assenza di alternative. Persino il tanto invocato rinnovamento, necessario e non rinviabile, deve essere in primo luogo un cambio di politiche e di persone che le sostengono. In questa prospettiva non vedo come sia praticabile ciò che alcuni chiedono, a partire da Casini, ovvero impegnarsi fin d’ora a proseguire le politiche di Monti. Non mi convince la tesi di Macaluso e onestamente non vedo, dopo i provvedimenti votati per la “salvezza” dell’Italia, come si possa ancora negare la natura classista di Monti che loda i fallimentari Mussari e Marchionne mentre non perde occasione per additare come nemici del popolo e della “patria” tutti quelli che si permettano di contestare le sue scelte, a partire dai sindacati.

Infine, credo che il terreno per una condivisione, un nuovo inizio per le forze di rinnovamento nel nostro paese sia quello di praticare una democrazia diretta e radicale. Non un estenuante rinvio delle proprie responsabilità, un eterno processo referendario, ma una pratica di relazioni che consenta alle idee di attraversare i partiti e non viceversa. Del resto, le proposte più innovative venute dalle primarie sono state anche quelle vincenti. Passiamo subito all’azione, costruiamo luoghi dove si possa decidere insieme a tanti cittadini che credono nella politica come strumento per il cambiamento quali siano i nostri obiettivi, impegnandoci a mantenere i patti con il nostro popolo anche dopo le elezioni. Non una resa di conti tra storie che, ha ragione Bindi, appartengono effettivamente al passato, ma un luogo comune e plurale di costruzione del presente e del futuro.

Gennaro Migliore

Pubblicato su l’unità

mercoledì 11 luglio 2012

La spending review contro il Welfare State


La spending review cui sta lavorando il governo ha ben poco a che vedere con un’operazione finalizzata solo a ridurre gli sprechi. Il pericolo è che si metta in campo un potente meccanismo di (ulteriore) destrutturazione del welfare legittimando l’assunto (assai discutibile) che tutto ciò che è pubblico è fonte di inefficienza.

Aristotele concepiva l’Economia come “governo della casa”. Nell’ideare la c.d.spending review (revisione della spesa), il Governo deve evidentemente aver attinto al pensiero aristotelico, indossando i panni di un buon padre di famiglia impegnato a far quadrare i conti. Sul sito della Presidenza del Consiglio si legge che: “con la spending review il Governo è intervenuto analizzando le voci di spesa delle pubbliche amministrazioni, per evitare inefficienze, eliminare sprechi e ottenere risorse da destinare allo sviluppo e alla crescita. La razionalizzazione e il contenimento dei costi sono infatti fondamentali per garantire, da un lato il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, dall’altro l’ammodernamento dello Stato e il rilancio del circuito economico”, e che, nel complesso, la spesa pubblica cosiddetta rivedibile (leggi: tagli) ammonta a quasi 300 miliardi di euro.

Nello stesso documento, viene precisato che questo importo “potrebbe servire, per esempio, a evitare l’aumento di due punti dell’IVA previsto per gli ultimi tre mesi del 2012”. I tagli verranno effettuati anche tendendo conto delle numerosissime mail spedite da cittadini italiani, che si sono avvalsi dell’opzione “esprimi la tua opinione”, segnalando sprechi e inefficienze. Fra queste, si cita il caso di un ospedale nel quale verrebbero tenuti accesi i riscaldamenti anche nel periodo estivo: caso piuttosto inverosimile, sebbene ancora da verificare, dal momento che ragionevolmente sarebbe nell’interesse di tutti coloro che lì lavorano chiedere che i riscaldamenti vengano spenti. A prescindere dall’incidentale “per esempio” al quale il Governo fa riferimento (non essendo noto a cosa si sia pensato in alternativa all’aumento dell’IVA), occorre innanzitutto rilevare – in linea generale – che è assai arduo ritenere che con 300 miliardi di minori spese si possa generare sviluppo e crescita, soprattutto considerando che questi risparmi verranno utilizzati per accrescere l’avanzo primario, potenziando – come si legge ancora nel comunicato governativo – “la linea di risparmio seguita dal Governo nei primi mesi di attività”.

Il documento, nella sezione di analisi, parte da un assunto falso, ovvero che, nell’ultimo trentennio, la spesa pubblica in Italia sia sempre aumentata. Su fonte Banca d’Italia, si rileva, per contro, che, a partire dalla seconda metà degli anni ’90, la spesa corrente ha cominciato a contrarsi, riducendosi, dal 1993 al 1994, da 896.000 miliardi a circa 894.000 miliardi. La spesa complessiva delle Amministrazioni pubbliche diminuisce dal 51,7% al 50,8% del PIL nel 1994 e, nel 1995, continua la riduzione dell’incidenza della spesa sul PIL, che raggiunge il 49,2%. Interessante osservare che, nel confronto internazionale con i principali Paesi OCSE, dal 1961 al 1980 (periodo nel quale la spesa pubblica in Italia è stata in continua crescita), lo Stato italiano ha impegnato risorse pubbliche in rapporto al PIL sistematicamente inferiori alla media dei Paesi industrializzati: a titolo puramente esemplificativo, nel 1980, il rapporto spesa corrente su PIL, in Italia, era pari al 41% a fronte del 41.2% della Germania.

Il documento ministeriale imputa l’aumento della spesa pubblica nell’ultimo trentennio unicamente a una sua gestione inefficiente (p.e. la duplicazione delle funzioni a livello centrale e locale). Anche in questo caso, ci si trova di fronte a una tesi opinabile, per due ragioni.

1. Senza negare che sprechi e inefficienze ci sono (e ci sono stati) nella gestione della cosa pubblica, occorre considerare che l’aumento della spesa pubblica, nel periodo considerato dal documento ministeriale, è stato essenzialmente finalizzato all’ampliamento delle funzioni dello Stato sociale (come del resto è accaduto nella gran parte dei Paesi OCSE, in quel periodo) che, a sua volta, si è reso necessario per venire incontro alla crescente domanda di giustizia distributiva in una fase storica caratterizzata da un elevato potere contrattuale dei lavoratori e delle loro rappresentanze nell’arena politica. Appare, dunque, a dir poco riduttivo ritenere – come fa il Governo – che la spesa pubblica è aumentata perché è stata gestita male.

2. Non è chiaro perché la revisione di spesa venga effettuata a partire dall’andamento dei valori assoluti della spesa pubblica e non dal rapporto spesa/PIL, che è l’indicatore al quale – per i vincoli europei – occorre far riferimento ai fini del rispetto del vincolo del bilancio pubblico. D’altra parte, l’andamento del valore assoluto della spesa pubblica non tiene conto delle variazioni del tasso di inflazione, così che non si hanno informazioni relative al suo andamento in termini reali. In ogni caso, anche assumendo l’ipotesi governativa, si rileva – su fonte Bundesbank – che, con la sola eccezione del 2004 e del 2011, la spesa pubblica in valore assoluto in Germania è costantemente aumentata. Puà essere sufficiente rilevare che, nel triennio 2008-2010, la spesa pubblica in Germania è aumentata, nel 2008, del 3,16%, del 4,66% nel 2009 e del 3,8% nel 2010, e ben oltre il tasso d’inflazione, quindi anche in termini reali. L’aumento è imputabile essenzialmente alla crescita degli investimenti pubblici, dei salari dei dipendenti pubblici e della spesa per il pagamento degli ammortizzatori sociali.

La spending review interviene soprattutto sulle spese della pubblica amministrazione e sulle spese sanitarie. Si stima, a riguardo, che, entro il 31 dicembre 2012, verranno soppresse circa 11mila sedi ospedaliere. L’obiettivo appare chiaro, anche considerando alcune significative dichiarazioni dei Ministri di questo Governo (come è noto, “anche gli statali siano licenziabili” è il leitmotiv del Ministro Fornero): ridurre (ulteriormente) i presunti privilegi dei lavoratori del settore pubblico, come fine in sé e come strumento per depotenziare (ulteriormente) il Welfare, e contenere le spese per la sanità pubblica, riducendo la quantità e la qualità dei servizi offerti, così da lasciar spazio a imprese private anche in questo settore. Su quest’ultimo aspetto, le conseguenze sono facilmente prevedibili: poiché le spese delle famiglie per servizi sanitari sono ovviamente considerate di primaria importanza, la riduzione dell’offerta pubblica – e la conseguente necessità di pagare i servizi sanitari – non può che tradursi in una (ulteriore) decurtazione dei redditi, soprattutto dei redditi più bassi e soprattutto nelle aree del Paese – Mezzogiorno in primo luogo – dove i salari medi sono più bassi. Così come la “razionalizzazione” della spesa delle pubbliche amministrazioni può facilmente tradursi in un (ulteriore) peggioramento della qualità dei servizi offerti, se non si accoglie l’eroica tesi – peraltro tutta da dimostrare – secondo la quale è solo rendendo le risorse sempre più scarse che si incentiva a farne un uso efficiente.

Sulla questione della licenziabilità dei dipendenti pubblici, occorre preliminarmente sgombrare il campo da un equivoco. Il Testo Unico del 2001 ha sostanzialmente “privatizzato” il rapporto di lavoro nella Pubblica Amministrazione, rendendo esplicitamente possibili i licenziamenti collettivi e non escludendo i licenziamenti individuali. Dunque, la normativa vigente già prevede la possibilità di licenziare dipendenti pubblici. Seguendo la linea Fornero, occorrerebbe fare un passo in più, ovvero incentivare le amministrazioni pubbliche a licenziare. A che fine? La sola ratio economica che può porsi alla base di questa proposta consiste nell’imporre – come nel settore privato – un dispositivo di ‘disciplina’ che incentivi i dipendenti pubblici a erogare maggiore produttività. Il problema, in questo caso, è che, a differenza del settore privato, non è chiaro chi e sulla base di quali criteri dovrebbe licenziare. Al di là della percezione diffusa secondo la quale molti settori della Pubblica Amministrazione funzionano male, il punto teorico che occorre sottolineare riguarda la difficoltà (se non l’impossibilità) di costruire criteri razionali – o anche solo ragionevoli – che orientino le decisioni di licenziamento nel settore pubblico .

Vista in quest’ottica, la spending review ha ben poco a che vedere con un’operazione tecnicamente neutrale finalizzata a ridurre gli sprechi. Si tratta di un potente meccanismo di (ulteriore) destrutturazione del Welfare State che si intende legittimare con l’assunto (assai discutibile) che tutto ciò che è pubblico è fonte di inefficienza.

Guglielmo Forges Davanzati

fonte: Micromegaonline

sabato 7 luglio 2012

Un decreto ammazza-Italia


Si tratta di un decreto ammazza-Italia. Il provvedimento è costruito senza cognizione precisa delle drammatiche conseguenze sociali, in particolar modo, gli effetti che si riverberano sui diritti dei cittadini. È un decreto che mette fortemente a rischio l’esercizio del diritto alla salute e può rappresentare un’ipoteca fatale sulla rete sanitaria e sulla cura, in una fase in cui le persone più povere già fanno fatica a poter esercitare il diritto alla cura e all’assistenza. Credo che l’insensibilità del Governo Monti sia stata clamorosa e l’interlocuzione con i rappresentanti degli Enti locali e delle Regioni assolutamente retorica. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Noi non possiamo che fare appello al Parlamento e alle forze politiche affinché abbiano consapevolezza del danno che viene inflitto al Paese.

Non si può immaginare che questa sia la strada per uscire dalla crisi, questa è la strada che ci precipita nella più buia delle crisi. Bisogna cambiare musica, cambiare modalità di approccio ai problemi della crisi economico-finanziaria. La Regione Puglia farà tutto il possibile dal punto di vista politico, istituzionale e giuridico per modificare in radice tale decreto. Credo che la cosa più importante da fare oggi sia appellarci alla responsabilità delle delegazioni parlamentari. Si tratta di un provvedimento che va corretto radicalmente, oppure bocciato.

Questo decreto è una ferita nei confronti della Costituzione per due motivi: innanzitutto, perchè la materia sanitaria è materia che prevede i poteri concorrenti del Governo e della Regione e, da questo punto di vista, in queste ore si è consumata una violazione del principio della leale collaborazione tra i diversi organi dello Stato. In secondo luogo, perché il diritto alla salute è un diritto di rango costituzionale e se tutti i Presidenti di Regione dicono che i provvedimenti adottati fanno saltare il circuito delle prestazioni e dei servizi nei confronti dei cittadini, credo che bisogna prendere sul serio tale richiamo.

Nel Decreto non c’è una spending review, non c’è una radiografia di quali siano le zone d’ombra, gli sprechi, le giostrine affaristiche e corruttive; ci sono tagli che arrivano direttamente al cuore dell’organizzazione sanitaria; sono tagli inferti sulla carne viva dei cittadini. Nel nostro giudizio c’è un punto di non ritorno. Il Governo Monti ha osato andare laddove non era riuscito neanche il Governo Berlusconi: questo, per quello che mi riguarda, è davvero un punto di non ritorno.

Nichi Vendola