sabato 23 giugno 2012
Video, Vendola-Rodotà
A questo link potete vedere il video integrale della conferenza stampa di Nichi e Stefano Rodotà tenutasi a Montecitorio su acqua, beni comuni, privatizzazioni e prospettive future.
giovedì 21 giugno 2012
E loro andarono alla Diaz
A luglio si terrà il processo di Cassazione per i 10 manifestanti ancora alla sbarra per i fatti accaduti a Genova durante il G8 del 2001. L’accusa è “devastazione e saccheggio”. Rischiano dagli otto ai quindici anni di prigione ma intorno a questa vicenda giudiziaria il silenzio è pressoché totale. Parlare di loro significa infatti parlare di nuovo di cose scomode, riaccendere i riflettori anche sugli uomini dello Stato che ebbero responsabilità gravissime per i fatti di quei giorni, rendendosi colpevoli di una gestione dell’ordine pubblico indegna dell’ordinamento democratico della Repubblica. Amnesty International definì i fatti di Genova: “La più grave violazione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la Seconda guerra mondiale”. Molti di quegli uomini di Stato, già condannati in appello, saranno sottoposti anche loro dall’11 giugno al giudizio della Corte di Cassazione. Quella Corte che, a marzo, ha mandato assolto l’allora capo della polizia Gianni Di Gennaro, sia pur riconoscendo che il blitz delle forze dell’ordine alla scuola Diaz di Genova, fu “eseguito con inusitata violenza dai 300 agenti operanti”, in assenza per altro di “reali gesti di resistenza” da parte dei 93 no-global arrestati e portati nella caserma Bolzaneto dove, si legge nella sentenza, “subirono altri atti di prevaricazione”, anche dalla polizia penitenziaria.
Siamo a questo punto, in un Paese come il nostro che non ricorda niente e mette sotto il tappeto tutto ciò che lo obbligherebbe invece a ricordare e a cercare spiegazione, forse spesso scomode per la politica, le istituzioni, gli apparati dello Stato ma salutari per lo stato di diritto e la democrazia.
Se ripenso all’estate del 2001, ai giorni torridi del G8, così drammaticamente segnati dalla violazione dei diritti, dalla morte di Carlo Giuliani, dal sangue dei ragazzi e delle ragazze sparso alla Diaz – una “macelleria messicana” disse qualcuno – e dalla bestiale violazione della dignità umana a Bolzaneto, mi torna come prima cosa alla mente, in automatico, come un segno indelebile non sufficientemente elaborato dentro di me, il senso di smarrimento che mi colse arrivando a Genova. Non quel sangue mi viene subito in mente; e neppure l’esperienza traumatica delle manganellate che subii anch’io, mentre in piazza Manin, affollata di femministe e attivisti della rete Lilliput, quelli con le mani dipinte di bianco, esibivo la mia tessera di parlamentare, cercando vanamente di trattare con i poliziotti partiti alla carica.
Mi torna alla memoria invece la sensazione di vuoto che ebbi mettendo piede a Genova, all’inizio dei lavori del contro vertice organizzato dal Social Forum. Arrivai il martedì di quella fatale settimana, mi sembra di ricordare, nel primo pomeriggio. Martedì 17 luglio. Un vuoto allucinato, pieno di un silenzio surreale, straniante, che invadeva gli spazi urbani e rendeva palpabile un’ansia sotterranea, un inquietante stato di sospensione, come il segnale di un pericolo incombente, l’alt posto alla frontiera di un territorio nemico.
Genova si presentò ai nostri occhi come lo Stato, il governo, gran parte della classe politica avevano voluto che si presentasse a chi non stava al gioco dei Grandi della Terra: una città cintata dentro se stessa, ostile, nemica. In ghingheri – con i ridicoli siparietti degli alberi di arancio curati personalmente da Berlusconi – per le autorità e gli ospiti stranieri; in armi contro chi voleva attrarre l’attenzione del mondo su insipienze, soprusi, abusi di potere del G8. Club di privati – era la parola d’ordine del contro vertice – che decideva le sorti del mondo, distruggendo il pianeta, affamando i popoli.
Ero stata in quei luoghi tante altre volte nella vita e Genova era per me da sempre una città unica e straordinaria: città del mare e delle voci, con quell’inconfondibile accento di popolo che non puoi dimenticare. La città degli scorci urbani arroccati gli uni sugli altri, per guadagnare spazio verso l’alto; dei carruggi, che si perdono in meandri misteriosi e parlano di antiche vicende umane. E della resistenza antifascista, nata a Genova fin dall’inizio dell’ascesa di Mussolini, e dei moti popolari del 1960, all’epoca di Tambroni, che impedirono che la città, medaglia d’oro al valor militare, ospitasse il Vl congresso del Msi, erede senza infingimenti allora del duce.
La costruzione del nemico interno e delle sue propaggini internazionali avevano accompagnato i preparativi ufficiali del G8, da subito e poi con furore ideologico crescente all’avvento del nuovo governo di centrodestra. Preparativi depistanti e ingannatori, per rendere ostile l’opinione pubblica al movimento no global, più che per alimentare il dialogo e costruire la mediazione tra autorità pubbliche e cittadini in lotta contro l’arbitrio di quell’autonominato consorzio dei Grandi. E preparativi militari più che di ordine pubblico: da stato di eccezione più che da Paese democratico, con terrificanti previsioni di morti e feriti da destinare agli ospedali cittadini, per questo allertati. Quando mi portarono a Galliera e là mi cucirono la ferita alla testa, sottoponendomi a controlli di ogni tipo, potei meglio rendermi conto, parlando col personale medico, di quale fosse il clima. Era il venerdì 20 luglio, la giornata degli inganni deliberati da parte di chi doveva garantire che l’ordine pubblico non diventasse quello che divenne e degli scontri furibondi che ne seguirono per ore e ore. Le 15 e 15 più o meno, quando arrivai all’ospedale, e quando, nel pomeriggio avanzato, mi lasciarono andar via, seppi che a piazza Alimonda era stato ucciso Carlo Giuliani.
Non mi aspettavo certo rose e fiori, arrivando a Genova, perché i segnali di uno Stato e di un potere politico incapaci di misurarsi con l’impeto, la denuncia radicale e le radicali ragioni del grande movimento no global erano apparsi chiari e minacciosi – quei segnali – in tutti i convulsi mesi che avevano preparato il vertice: una micidiale campagna di stampa tesa ad accreditare le tesi più colpevolizzanti circa la natura e le intenzioni del movimento. Tutti più o meno terroristi, black bloc invasati, sovversivi senza patria, a dispetto dell’incessante ostinato lavoro di mediazione, ricerca di patteggiamenti, assunzione di responsabilità degli esponenti del Social Forum. E delle migliaia e migliaia di pacifisti, democratici, non violenti, lavoratori e sindacalisti, donne e ragazzi, che confluirono nella città ligure l’ultimo giorno, quello che, nella notte, si concluse col massacro alla Diaz. Trecentomila, sabato 21 alla manifestazione, nonostante le notizie del giorno prima, la morte di Carlo Giuliani, il disimpegno politico di troppi.
Contro quella manifestazione, spezzata in due e intrappolata in un lungomare senza punti di fuga, la polizia si esercitò in tattiche antisommossa degne di una truppa d’assalto che voglia ristabilire l’ordine in una città nemica. Un furore da truppa d’assalto che era nelle cose fin dall’inizio, nella messa a punto dell’ insensato piano di militarizzazione della città, che già il centrosinistra, nello scorcio della XIII legislatura aveva avviato e Berlusconi, vittorioso nelle politiche del 2001, aveva completato. E che aveva avuto la sua prova generale a Napoli, dove, nel marzo dello stesso anno, una manifestazione dei no global finì, come scrisse un giudice nella sentenza a carico di dieci poliziotti, in un forsennato rastrellamento che nessuna disposizione normativa poteva in alcun modo giustificare.
Non mi aspettavo certo rose e fiori, andando a Genova. Ma la realtà superò le più nere aspettative, i timori su cui più avevo riflettuto. Genova era stata allestita come un teatro di guerra, sottratta alla sua storia, violata nella sua identità, preparata alla punizione finale. Zona rossa proibita: se rompi la consegna sei un nemico da abbattere.
Città svuotata sprangata recintata assediata. Gli abitanti della zona limitrofa al lungomare, dove si sarebbero svolti lavori dei forum tematici del controvertice, convinti ad allontanarsi, i negozi chiusi, il traffico deviato. I no global presentati come pronti a tutto, tutti black bloc dal primo all’ultimo, esercitati alla guerriglia urbana, pronti ad avvelenare i pozzi, le acque del mare, l’aria e la vita. Forse fu per questo che i black bloc, quelli veri – c’erano anche loro ovviamente, una minoranza che una diversa gestione dell’ordine pubblico avrebbe potuto tenere sotto controllo senza troppe difficoltà – furono lasciati scorrazzare in lungo e i largo. E alimentarono con le loro tattiche violente il clima da guerriglia urbana senza scampo, l’atmosfera da guerra civile senza perdono: loro, gli sbirri, gli altri, i no global. Non a caso doveva finire come finì.
Nella notte del sabato come l’atto finale del dramma – ci fu la mattanza alla Diaz, preparata come una spedizione punitiva, e poi il seguito di inganni e depistaggi che a tutti i livelli la polizia mise in scena da subito, variandone la trama come meglio poteva servire per giustificare il suo operato. Le variazioni riguardarono anche, non a caso, la ricostruzione delle responsabilità della catena di comando.
Io ero già partita qualche ora prima, approfittando di un passaggio in macchina. Volevo proprio farla finita con quella massacrante giornata durante la quale, in testa un berretto rosso che un verde mi aveva offerto a riparo della ferita incerottata,mi ero data da fare con altri volenterosi per aprire varchi di fuga per i manifestanti, riuscendo anche insperatamente a convincere qua e là qualche poliziotto – più anziano o meno eccitato – a spostare i blindati messi a bloccare gli accessi al lungomare ( e viceversa ovviamente). Il tesserino in quel frangente ebbe qualche effetto “istituzionale”.
Ero al centro stampa del Social Forum, proprio davanti alla Diaz, quando passarono a prendermi. Non vedevo l’ora di andarmene ed eravamo ormai molto lontani da Genova quando mi telefonarono per avvertirmi della mattanza. Mi è rimasto, di quegli ultimi momenti passati davanti alla scuola, il ricordo di un velivolo della polizia che a bassa quota continuava a girare ostinatamente sull’edificio. Chiesi a qualcuno dei presenti: “Ma che vogliono ancora?” “Sono fatti così”, mi rispose il no global.
Elettra Deiana
La tecnocrazia ha fallito. Come la destra
Tutti tirano un sospiro di sollievo per il voto greco. I titoli dei giornali del giorno dopo, con la eccezione lodevole dell’Unità, non hanno dubbi: ha vinto l’euro, ha vinto l’Europa. In realtà ha vinto semplicemente Nuova Democrazia, la forza conservatrice che ha la responsabilità di aver portato al disastro economico il paese. La vittima predestinata è stato lo storico partito di sinistra del Pasok che paga la resa incondizionata ad un memorandum europeo di lacrime e sangue che finirà per stremare il popolo ellenico già provato da politiche socialmente intollerabili. Trionfa Syriza, una sinistra nuova additata come forza antieuropea e fautrice del ritorno alla dracma. Nulla di più falso, ma di questi tempi porre condizioni, ricontrattare gli impegni ed avere un’altra idea dell’Europa è impresa ardua. Una sorta di nuovo pensiero unico impastato d’intolleranza autoritaria e liberismo condito da politiche restrittive e antisociali non ammette deroghe. Costruisce sistematicamente, con la paura, il nemico che è l’altro da sé: il pensiero differente. Da questo punto di vista il voto di Syriza è straordinario e costituisce una risorsa democratica per l’intero continente.
Volano le borse per qualche ora. Poi i mercati tornano, come avvoltoi, a minacciare i paesi in difficoltà. La giostra continua. E’ contento Monti che apprezza le larghe (?) intese greche e annuncia di voler portare come trofeo al decisivo consiglio europeo del 28 giugno la nuova legge sul mercato del lavoro. Quella legge che doveva risolvere il problema dello sviluppo e aggredire la precarietà giovanile e che ha finito per sfregiare i diritti dei lavoratori a cominciare dall’articolo 18 e lasciare inalterate le multiformi tipologie contrattuali atipiche e precarizzanti delle vecchie norme.
Il vero “contagio” è quello di una diffusione del pensiero mediocre ed intollerante anche in Italia. Fassina riflette sul possibile voto in autunno? “Deve uscire dalla segreteria del Pd” intima in forme illiberali un autorevole testimone del pensiero liberale come Scalfari. “Bersani deve zittirlo” ammonisce un editoriale del Corriere della Sera. Ed anche nel Pd si levano voci e pulsioni minacciose. Un chiassoso e fastidioso chiacchiericcio di palazzo prende il sopravvento sul silenzio di fondo delle strategie da mettere rapidamente in campo per salvare l’Italia e l’Europa in declino.
Eppure il quadro sociale, economico e culturale è così compromesso da imporre una presa d’atto della realtà e una mobilitazione democratica per una strategia alternativa. E’ in difficoltà il blocco sociale di riferimento naturale della sinistra nel mentre, in parlamento e nel paese, si va dissolvendo la soggettività politica delle destre e con essa, però, anche la corresponsabilità nell’azione di governo con una delegittimazione convulsa e confusa della politica che rischia di trascinare con sé anche le forze che sono vocate a costruire un’alternativa. Le ricette rigoriste del governo non hanno mutato il corso del debito pubblico che anzi raggiunge il suo record storico e contemporaneamente assistiamo ad un impoverimento drammatico della società italiana: disoccupazione a due cifre, giovani e donne senza prospettive e fortemente penalizzati, salari tra i più bassi d’Europa.
Pesano sicuramente gli anni del “tremontismo” e dello scellerato governo Berlusconi. Ma è credibile chiedere in Europa una politica di espansione qualitativa se in Italia si fa l’esatto contrario? L’Europa ha un bisogno urgente di scelte politiche unitarie, istituzionali ed economiche. Se si europeizzasse il debito la Grecia non sarebbe un problema con il suo 2% dell’intera economia del continente ed il suo popolo non sarebbe costretto alla fame e alla miseria. Se la Bce potesse avere un ruolo di scudo contro le speculazioni finanziarie il rischio di crisi e di contagio sarebbero irrisori. Se l’Europa investisse risorse adeguate per alimentare una qualità nuova dello sviluppo al posto delle politiche di austerità che l’hanno caratterizzata in questi anni riscoprirebbe una sua nuova identità sociale. Se il vecchio continente fosse stato meno sordo e strumentale rispetto alla straordinaria stagione di partecipazione democratica dei popoli che si affacciano sull’altra sponda del Mediterraneo ora avvertirebbe meno il declino culturale e democratico e non avremmo assistito al ritorno dei fondamentalismi e dei trasformismi in quelle realtà.
Tutti questi urgenti “se” hanno una densa valenza politica e devono essere legittimati dal consenso popolare. Con le destre in Europa hanno fallito anche le tecnocrazie e le loro ricette liberiste. Per questo l’Italia non può più giocare un ruolo di equilibrismo tra la Francia e la Germania dopo aver accettato il fiscal compact ed aver introdotto in costituzione il pareggio di bilancio. Deve tornare in campo quella politica in grado di imporre nuove regole ai mercati e di mettere le briglie alla speculazione. Se la politica non condiziona l’economia, la finanza, i mercati e, quindi, i destini individuali e collettivi, a cosa serve?
E’ da questa ininfluenza che si alimenta un rancore sordo che ieri era anche indignazione contro diseguaglianze e privilegi ed oggi rischia di essere, per dirla con Bodei, solo depressione con una portato di rabbie impotenti in preda a populismi di ogni genere. La Repubblica ha organizzato in questi giorni una kermesse di grande prestigio a Bologna con un parterre d’intellettualità e competenze di rilievo. Ma al centro di questa iniziativa svetta la sola presenza di Monti. Vuole essere ancora un investimento per il futuro? Se così fosse il centro sinistra si polverizzerebbe e dubito che rimarrebbe integro il partito più grande della coalizione. Se si contrappone ancora alla sfiducia dilagante, alla rassegnazione ed al rancore la “Tecnica” temo che spianeremo la strada a reazioni populistiche e a rischi autoritari.
La salvezza dell’Europa è la costruzione dell’alternativa e questa ci parla della rinascita della sinistra. Una sinistra in grado di redistribuire la ricchezza e in grado di avanzare una nuova proposta sulla produzione del valore. Non la crescita indistinta ma l’investimento in un nuovo paradigma in cui la valorizzazione del lavoro e dell’ambiente diventino il perno di una rinnovata cultura politica. Ci sono antiche categorie della politica che non reggono più.
Chi sono oggi “i moderati”? E perché vengono invocati in relazione a forze politiche centriste? Un tempo i ceti moderati erano in stretta relazione politica con le classi medie. Ma il violento impoverimento di queste ultime ha fatto si che la percezione della crisi è stata persino più drammatica delle classi storicamente meno abbienti e i loro orientamenti culturali e politici non mi paiono propriamente moderati. Le forze centriste sono erose dall’asprezza dei conflitti sociali.
Capisco che qualcuno del Pd tifasse per Bayrou, ma il suo ridimensionamento in Francia è stato netto al pari della scarsa decisività del terzo polo in Italia. Questa è la realtà. Sarebbe bene confrontarsi con essa per quel che è e non per quel che si vorrebbe. Bisogna fare in fretta. La finestra di Hollande potrebbe chiudersi se non venisse supportata da altre realtà statuali. Per queste ragioni la proposta di Bersani di primarie aperte smuove le acque colpevolmente stagnanti di questi ultimi mesi. Ma il confronto di merito per rinnovare il centro sinistra e costruire il programma alternativo deve essere appannaggio non solo di forze politiche, ma di associazioni, movimenti, forze sociali. Si è messo da parte incredibilmente la straordinaria risorsa dei referendum dei beni pubblici, sul nucleare, sulla giustizia e quel moto di partecipazione delle precedenti amministrative. E’ in quel sommovimento democratico che vanno ricercate le radici e la stessa natura del programma del nuovo centro sinistra. I tempi si sono fatti troppo stretti. Tecnica e Antipolitica si stanno alimentando esponenzialmente. E il vuoto, a destra, temo non resterà tale per molto tempo.
Franco Giordano
lunedì 18 giugno 2012
Un voto per un'Europa diversa
“Hollande trionfa, la Grecia contesta l’austerità”. Sono questi i titoli che avrei voluto leggere stamattina, ma purtroppo la linea dettata dai poteri forti ha trovato in Monti e nella maggioranza dei grandi giornali italiani dei ripetitori incolori della grande bugia che viene raccontata a proposito della giornata di ieri. Hanno titolato quasi tutti “l’euro è salvo”, ma questa è la prima bugia. L’euro non è salvo, ma hanno in compenso guadagnato un po’ di tempo i sostenitori delle attuali politiche. Merkel e Monti, nonostante i distinguo di quest’ultimo sulla fantomatica “crescita” (rigorosamente senza aggettivi), non volevano affrontare di petto una contestazione delle politiche di austerity, che Alexis Tsipras avrebbe sicuramente sollevato nel prossimo vertice europeo. Hanno brindato, questi grigi e potenti esponenti della destra europea, per il pericolo scampato. Da loro però, poiché né la malandata moneta unica né i dissanguati popoli europei, greci in testa, sono assolutamente in acque tranquille.
Chissà quali gesti apotropaici avranno fatto affinché anche in Francia si verificasse un bello stallo, magari una coabitazione tra Ps e Ump, per tagliare le unghie a Hollande e proseguire indisturbati nelle sventate scelte iperliberiste. Ma in Francia, come si sa, lo scongiuro non ha funzionato e oggi Hollande dispone della maggioranza assoluta per fare le riforme sociali, quelle vere, come la riduzione dell’età pensionabile, e quelle istituzionali, a partire dalla critica all’iperpresidenzialismo. Ma soprattutto Hollande si può sedere a negoziare la modifica delle politiche di austerità senza dover cercare compromessi con Sarkozy, che ne era stato l’influente cofondatore.
In entrambi i paesi è cresciuta ancora l’astensione: il 38% in Grecia e addirittura il 44% in Francia (dove però l’astensione al secondo turno è connaturata al tipo di legge elettorale). Si tratta di due dati che raccontano di un solco sempre più profondo tra una parte dei cittadini e le istituzioni. Ma sono convinto che in Francia si proverà ad agire per restituire fiducia ai cittadini, mentre in Grecia crescerà la chiusura del governo, similmente a quanto sta accadendo in Spagna dopo il trionfo della destra ed il tonfo dei socialisti.
Più volte abbiamo detto che il liberismo è insofferente alle limitazioni imposte dai poteri democratici. In effetti, la vergognosa campagna contro Syriza fatta direttamente dai ministri tedeschi è la prova che, per chi comanda, la democrazia può essere solo una conferma delle proprie scelte. Altrimenti è diserzione, ammutinamento, tradimento. Invece, proprio il risultato greco infonde fiducia e coraggio a chi ha la speranza di poter cambiare le cose. Syriza ha vinto politicamente, anche se ha mancato l’obiettivo di diventare la prima forza politica e quindi di ottenere il gigantesco premio di maggioranza che toccherà a Samaras ed ai suoi alleati. Ha vinto poiché ha decuplicato i voti del Synaspismos, che di Syriza è il fondatore, in poco più di tre anni. Ha vinto poiché è di gran lunga il primo partito tra i giovani e nelle aree metropolitane. Ha vinto perché ha saputo catalizzare i voti in uscita dalla dissoluzione del blocco sociale del Pasok, un partito ridotto ad un accozzaglia di privilegi e clientele, e quelli delle inconcludenti formazioni settarie, a partire dai comunisti del KKE. Siccome non cederà alle sirene di un governo di larghe intese, come subdolamente propone il Pasok, Syriza si sta attrezzando per un’opposizione che la consolidi su una linea politica europeista e contro l’austerity. Nuova democrazia ed i suoi alleati sono stretti tra i diktat di Bruxelles e Francoforte e la disperazione dei greci. Non è detto che un governo che fa cinicamente brindare i salotti buoni dell’economia continentale regga l’urto della disperazione sociale e che, nel giro di un anno, non si torni a votare.
A Parigi, invece, si comincia a fare sul serio e le indiscrezioni sul piano per lo sviluppo dell’occupazione in Europa che Hollande porterebbe al prossimo vertice europeo fanno ben sperare: “grandi cantieri” dal digitale alle energie rinnovabili, sostegno alla nuova occupazione, in particolare giovanile, tassazione delle transazioni finanziarie, eurobond e project bond. Certo non basta, poiché questa crisi si affronta interrompendo innanzitutto i tagli alla spesa sociale, l’aumento delle tasse sui ceti deboli e le privatizzazioni, ovvero i tre dogmi dell’austerity, ma la Francia non può fare tutto da sola.
C’è bisogno di un cambiamento radicale anche negli altri paesi e se si legge correttamente il risultato, un cambiamento c’è stato anche in Grecia, proprio grazie all’affermazione di Syriza. Bisogna uscire dalla sindrome che vede tutto possibile in una vittoria elettorale e la totale impotenza nel caso di una sconfitta. La politica è, in particolare per la sinistra, mobilitazione delle forze sociali e culturali, costruzione di un discorso pubblico sul modello di convivenza. Abbiamo sempre detto che l’attuale crisi è figlia della crescita delle diseguaglianze e delle ingiustizie. Abbiamo il dovere di ripartire da lì.
La vittoria di Obama fu preceduta da una grande campagna che contestava la visione del mondo dei neoconservatori, tutta guerra e liberismo, e nonostante i risultati deludenti del quadriennio stiamo ancora qui a sperare che vinca il presidente che dice no al modello suicida seguito dalle classi dirigenti europee. Così è avvenuto in Francia, dove la narrazione del presidente “normale” contro l’austerity ha dato un progetto politico ai francesi che hanno investito nel cambiamento. Persino in Grecia nessuno può più sottrarsi alla critica del memorandum, nonostante siamo in molti a pensare che il prossimo governo tradirà i cittadini a favore dei poteri forti.
Solo in Italia manca nei partiti presenti in parlamento, ma anche tra le forze intellettuali, che si convocano spesso per le nomine e per reclamare un ricambio purchessia della classe dirigente, un discorso sul cambiamento di modello. Noi lo diciamo da tempo: è il modello neoliberista che non va, non vanno bene le mortificazioni dei diritti dei lavoratori, la scure sugli esodati, la privatizzazione delle aziende pubbliche, l’aumento delle tasse sui beni di consumo e sulla prima casa. Lo dicevamo dai tempi di Genova 2001, quando incrociammo la nostra strada proprio con quella di giovani come Alexis Tsipras. Per noi anche le primarie devono essere il terreno per rappresentare questa alternativa, altrimenti si discuterà inutilmente di perimetri, di alleanze e dei millimetrici avanzamenti o arretramenti che una soluzione di compromesso potrebbe offrire. Sta a Sel scuotere l’albero della rassegnazione, altrimenti saranno altri a raccogliere i frutti amari della giusta indignazione verso chi ci ha condotti fino a questo punto.
domenica 10 giugno 2012
"A me interessa la partita"
Pubblichiamo l’intervista rilasciata oggi da Nichi Vendola a Repubblica.
Vendola, sottoscrive le parole di Di Pietro contro Bersani?
«Non le sottoscrivo, la mia specialità del resto non sono le intemperanze né l’irascibilità».
Ma lei con chi sta: con Bersani o con Di Pietro?
«Intanto voglio dire che è positivo che tante anime del centrosinistra riprendano a parlarsi sia pure in modo frizzante, e soprattutto che lo facciano davanti a una platea inquieta e esigente come quella della Fiom. È una finta ingenuità stupirsi delle asprezze e dei toni rudi. Conosciamo le divaricazioni e i contrasti. Non avremmo avuto il ventennio berlusconiano se la sinistra non si fosse così accuratamente divisa».
Questa è la malattia antica. Ma lei quali idee ha per il futuro?
«Il fatto nuovo è che ci sia una ripresa di parola davanti alla questione sociale. Io non vorrei neanche sovraccaricare di significati i toni usati da Di Pietro, che si è posizionato con forza, ma dubito molto che la sua sia un’uscita dalla coalizione del centrosinistra».
Sta cercando di tenersi in equilibrio, Vendola?
«No, sto cercando di mettere tutti davanti alle responsabilità che abbiamo di costruire unitariamente l’agenda del cambiamento poiché siamo collocati sull’orlo di un cratere e il vulcano della crisi sociale, della disoccupazione di massa, della recessione, della povertà può eruttare da un momento all’altro. Essere responsabili non significa cercare il minimo comune denominatore, bensì costruire un patto con il mondo del lavoro e le giovani generazioni. O il centrosinistra è questo oppure non c’è, è un artificio elettorale».
La “foto di Vasto”, quell’alleanza Vendola, Di Pietro, Bersani è strappata, rotta?
«Per me la foto di Vasto è sempre stata solo l’evocazione di una possibilità: quella di un’uscita a sinistra dalla crisi del berlusconismo. I protagonisti di quell’immagine sono forse necessari, ma non sufficienti, per incarnare una grande e credibile alternativa.
Comunque io scelgo la piattaforma della Fiom “senza se e senza ma”».
Si presenta alle primarie del Pd?
«Sono a disposizione».
Cioè, si presenta o no?
«Di mestiere non faccio il candidato alle primarie, non sono divorato dalle ambizioni personali».
Ma fu lei a lanciare la sfida.
«Oggi siamo in un evo differente rispetto al luglio 2010. È una scelta che si compie collettivamente, non sono un ragazzo in carriera».
Sarebbe disposto a sciogliere Sel, il suo partito?
«Ho detto, nel congresso di fondazione, che più che il partito mi interessa la partita per uscire dall’egemonia della destra».
Pensa forse a un “listone” della sinistra?
«Siamo impegnati nella costruzione di un nuovo soggetto plurale, popolare, della sinistra del futuro così come lo evocano gli intellettuali di ALBA e i sindaci, da Pisapia a Emiliano, De Magistris, Zedda, Orlando…».
Ci sarà una lista Fiom alle elezioni?
«Penso di no, la Fiom sta facendo bene il sindacato ed è un compito politico».
Andrebbe al voto “divorziato” dal Pd?
«Non andrei mai diviso dalle ragioni del mondo del lavoro».
Bersani e l’impegno per i gay: a lei, omosessuale, quale effetto fa?
«Bene, ora però la battaglia in Parlamento. Mi sono sentito troppe volte preso in giro dal piccolo cabotaggio, dall’ipocrisia, dal “vorrei ma non posso”. L’impegno è il minimo che la decenza impone a qualunque forza democratica, visto che l’Italia vive dentro una tenebra oscurantista»
Giovanna Casadio
fonte: repubblica
sabato 9 giugno 2012
Con la FIOM, per dire da che parte stiamo
La ragione politica di una coalizione che si candida a governare il Paese e che ambisce a invertire la corsa verso l’abisso non risiede nel nome che si dà. Non deriva neppure, nell’essenziale, dalle forze che la compongono e meno che mai dalle promesse che sparge in campagna elettorale.
La ragion d’essere reale di una forza politica o di una coalizione si misura oggi solo nei fatti e negli schieramenti che di volta in volta assume. Essere dalla parte della Fiom, oggi, è dirimente. Non si tratta “solo” di prendere posizione apertamente a favore del sindacato più combattivo e più combattuto, con tattiche profondamente antidemocratiche che non avrebbero sfigurato negli Usa del maccartismo. C’è questo, ed è fondamentale, ma c’è anche molto di più. Qui e ora, oggi in Italia, la Fiom è la bandiera di chiunque non intenda accettare la degradazione dei lavoratori al rango di merce inanimata, spogliata di ogni diritto, esposta dalla culla alla tomba ai capricci e alle traversie del mercato.
Nell’Italia di Mario Monti, e prima in quella di Silvio Berlusconi, la Fiom è stata il baluardo della contrattazione nazionale contro una contrattazione atomizzata tra i singoli lavoratori e l’azienda, della resistenza contro il dilagare del precariato, della difesa dell’art. 18 contro la libertà di licenziare, della necessità di non arrendersi all’ingordigia di una logica fondata tutta sulla massimizzazione del profitto.
Nell’Italia di Sergio Marchionne la Fiom è diventata il vessillo di una democrazia negata nella sostanza e ormai anche nella forma. Lo sconcio del sindacato più forte e più rappresentativo messo fuori dalla principale azienda per non aver accettato di firmare un contratto imposto col ricatto dovrebbe gridare vendetta alle orecchie di tutti i democratici e i liberali, non solo per la sinistra politica e sociale.
All’incontro tra la Fiom e le forze politiche di centrosinistra, all’Hotel Parco dei principi di Roma, richiesto dal segretario Maurizio Landini, saranno presenti tutti i segretari dei partiti che di qui a pochi mesi si candideranno a governare l’Italia. Quei partiti chiederanno il voto a elettori disgustati dai compromessi e dalle rese alla ideologia e alle imposizioni materiali della destra degli ultimi.
E’ in questa occasione, non nella vaghezza di programmi chilometrici, che il centrosinistra deve dire da che parte sta. Deve saper far arrivare un messaggio chiaro e senza all’intelligenza e al cuore della nostra gente, degli elettori delusi e tentati dal rifiuto della politica, dei lavoratori che dal prossimo governo si aspettano non una correzione di rotta ma un drastico cambio di indirizzo.
Per loro, come per Sinistra Ecologia Libertà, lo spartiacque passa per la posizione che si prenderà nell’incontro del 9 giugno con la Fiom.
Francesco Ferrara
giovedì 7 giugno 2012
Ospedale, si gioca sulla pelle dei cittadini
Completamento della struttura, riconoscimento degli 84 posti letto previsti dal decreto n. 49 del 2010 del Commissario ad acta, meglio noto come piano Zuccatelli dal nome del sub commissario, e specializzazione della struttura ospedaliera, nell’ottica del contenimento della spesa sanitaria e di una assistenza specialistica nel contesto provinciale e regionale. Questi sono i principali temi affrontati dai partiti politici riunitisi nella giornata di lunedì 4 giugno, presso il circolo cittadino di Sinistra Ecologia Libertà.All’incontro hanno preso parte i consiglieri comunali Giuseppe Moretta, Giuseppe Riccio e Pietro Squeglia, e i rappresentanti dei partiti politici dell’Idv, Giuseppe Piccolo, dei Socialisti, Carlo Croce, e di Sinistra Ecologia Libertà, Alessandro Martino. La discussione che ha animato i partiti è scaturita dall’approvazione del decreto n. 53 dello scorso 9 maggio, nel quale si evince che i piani attuativi, in linea con le indicazioni del decreto 49 del 2010, che prevedevano la razionalizzazione del sistema ospedaliero attraverso la riconversione dei piccoli ospedali, sono stati rispettati soltanto per le strutture ospedaliere di Capua, San Felice a Cancello e Teano. Infatti, giova qui ricordare che il piano “Zuccatelli”, allo stesso tempo, prevedeva il rafforzamento della struttura ospedaliera di Marcianise, anche attraverso il trasferimento delle unità operative del presidio di Maddaloni, e il completamento del quarto e quinto piano dell’edificio. Soltanto con il definitivo adeguamento della struttura ospedaliera vi sarebbe stato il contestuale insediamento di cliniche universitarie. Purtroppo, nei mesi scorsi si è assistito al sistematico smantellamento della struttura ospedaliera cittadina, con chiusura di importanti reparti, a discapito delle migliaia e migliaia di cittadini che afferiscono al suo bacino di utenza, senza peraltro annoverare, al contempo, una clinica universitaria realmente strutturata. Provoca amarezza e stupore il fatto che, nonostante il perdurare di una situazione di criticità e sofferenza per i cittadini, il sindaco della città di Marcianise, Antonio Tartaglione, e il direttore generale dell’Asl, Paolo Menduni, giocano sulle aspettative di assistenza e di cura di interi territori, annunciando a mezzo stampa l’arrivo di interi reparti universitari, senza che ciò sia previsto dall’attuale decreto n.53, approvato lo scorso maggio.Nei prossimi giorni, queste forze politiche saranno impegnate in una strenua battaglia in difesa del diritto alla salute dei cittadini, sia nelle sedi istituzionali e sia attraverso manifestazioni pubbliche.
martedì 5 giugno 2012
Il futuro dell'Europa è verde
La soluzione alla disoccupazione galoppante in Europa non è mai stata così verde. Secondo l’Ocse puntare sulle rinnovabili e sull’efficienza energetica vuol dire creare 5 milioni di posti di lavoro in più. Possibile? Secondo l’organismo internazionale con sede a Parigi, dal momento che per produrre energia in modo pulito e consumarla in modo efficiente ci vuole tecnologia e professionalità, bisogna investire in capitali e personale. Il rapporto Ocse “The Jobs Potential of a Shift towards a low-carbon Economy”, presentato ieri a Bruxelles, riprende quanto già detto lo scorso aprile dalla Commissione europea con il pacchetto impiego. Adesso basta iniziare a crederci davvero.
Con il tasso di disoccupazione nell’Eurozona salito all’11% nel mese di aprile (+ 0,1% rispetto a marzo e +1,1% rispetto ad aprile 2011) una simile prospettiva fa a dir poco sperare. Secondo Eurostat in un mese in Europa sono andati in fumo 110mila posti di lavoro, ovvero 1.797 lavoratori a casa in un anno. Questo vuol dire che nell’Eurozona i disoccupati ad aprile erano 17.405 milioni (17.295 a marzo e 15.608 nell’aprile 2011). Va leggermente meglio se prendiamo in considerazione tutti i Paesi Ue (compresa la miracolosa Polonia), con “solo” 24.667 milioni di senza lavoro (un tasso di disoccupazione al 10,3%). Cifre da capogiro soprattutto nei Paesi del Sud: a guidare la la classifica ci pensa la Spagna con il 24,3% di disoccupati (+0,2% rispetto al mese precedente) e il 51,5% di senza lavoro tra i giovani sotto i 25 anni. Ma anche l’insospettabile Francia non se la cava benissimo, con un 10,2% di senza lavoro (+0,1% in un mese).
Ed è proprio in un contesto come questo che le stime contenute dal rapporto dell’Ocse sembrano la luce fuori dal tunnel. Secondo il prestigioso organismo internazionale, infatti, lo sviluppo delle energie rinnovabili e l’applicazione di singole misure per una maggiore efficienza energetica avrebbero il potenziale di creare fino a cinque milioni di nuovi posti di lavoro nella green economy entro il 2020. A crederci primo fra tutti è Laszlo Andor, Commissario Ue all’Occupazione, che ieri ha presentato il rapporto insieme al Segretario generale Ocse, Yves Leterme. “Abbiamo stimato che il potenziale occupazionale legato allo sviluppo delle energie rinnovabili è di tre milioni di nuovi posti di lavoro entro il 2020 e quello legato all’attuazione di singole misure di efficienza energetica è di ulteriori due milioni di nuovi posti di lavoro entro il 2020”, ha detto il commissario.
Partiamo dai rifiuti. Secondo Andor, “solo una migliore gestione dei rifiuti potrebbe creare oltre 400mila posti di lavoro entro il 2020”. Difficile non pensare all’Italia, visto che solo il 31 maggio la Commissione europea ha intimato al nostro Paese di “conformarsi entro due mesi” alle norme Ue per un adeguato pretrattamento dei rifiuti collocati nella discarica di Malagrotta (tra le più grandi d’Europa) e in altre nel Lazio. Questione che, dopo il caso Corcolle-Villa Adriana, sta ora creando scompiglio ad Anzio, località designata per i nuovi sversamenti. Insomma, mentre l’Ue stima che riciclaggio e compostaggio oltre che all’ambiente fanno bene anche all’impiego, l’Italia rischia di finire di fronte alla Corte di Giustizia visto che la discarica di Malagrotta “contiene rifiuti che non hanno subito il pretrattamento prescritto”.
Ma torniamo al rapporto Ocse. Tre gli strumenti chiave suggeriti per innescare il circolo virtuoso in tutto il continente: supportare il ricollocamento dei lavoratori dalle imprese in crisi a quelle verdi in crescita; incentivare l’eco-innovazione e la diffusione delle tecnologie verdi rafforzando la formazione e impedendo che le normative siano un ostacolo; riformare il sistema fiscale e dei benefici per i lavoratori affinché il costo delle politiche ambientali non diventi una barriera alle assunzioni. E poi le previsioni della Commissione europea non si fermano qui. Secondo Bruxelles, infatti, una riduzione del 17% del fabbisogno di materie prime a livello Ue potrebbe creare tra 1,4 e 2,8 milioni di posti di lavoro entro il 2025, così come il riciclo di “materie chiave” potrebbe aggiungerne altri 560mila.
“Il rapporto Ocse conferma che la crescita verde sarà uno dei motori principali del cambiamento strutturale nella nostra economia”, ha concluso il commissario Andor. “Il greening dell’economia europea sta già creando dei posti di lavoro in alcuni settori chiave come le energie rinnovabili e la costrizione di impianti di efficienza energetica. E continuerà a farlo nei prossimi decenni”, ha aggiunto Leterme. Adesso la parola passa ai governi nazionali.
Alessio Pisanò
Fonte: il Fatto Quotidiano
sabato 2 giugno 2012
Il 2 giugno e la Repubblica dei precari
Ci si perdoni la tigna con cui torniamo su un argomento già trattato ma il fatto che la parata militare del due giugno, cioè di questa mattina, si farà (a prescindere dai morti in Emilia e da uno sciame sismico che continua a infestare quella terra da più di una settimana, a prescindere dai diciassette morti e dai capannoni crollati addosso ai nostri operai) merita qualche riflessione in più.
La prima ha a che fare con i tagli decisi, bontà loro, dagli organizzatori della parata per risparmiar monete: non ci saranno in cielo i ghirigori delle frecce tricolori, non sfileranno i mezzi pesanti, i lancieri di Montebello e i carabinieri a cavallo. Con un risparmio totale di un venti per cento sui costi preventivati alla vigilia. Si è aggiunto che, tanto, parte della cifra era stata ormai impegnata e che comunque non sarebbero stati quei pochi milioncini di euro a risolvere il problema di un paese sull’orlo della bancarotta. Nemmeno la riduzione delle indennità dei parlamentari e l’adeguamento dei prezzi della buvette di Montecitorio salveranno l’Italia: ma si è scelto – giustamente – di tagliare quei costi perché a un paese a cui chiedi sacrifici e senso di responsabilità devi offrire anche gesti simbolici. Che portano poco alle casse della nazione ma molto al senso di responsabilità e di solidarietà collettivi.
Fu anche questa la ragione che convinse il presidente Scalfaro, il giorno del suo insediamento al Quirinale nel 1992, ad annunciare che la Repubblica sarebbe stata celebrata, da quel due di giugno in avanti, senza parate militari e senza pranzo di gala offerto al personale diplomatico accreditato ma piuttosto aprendo i giardini del quirinale agli italiani. Fu una scelta e un gesto di sobrietà, peraltro in un tempo in cui i morsi della crisi erano meno violenti e la terra non tremava ogni notte come accade in queste ore. Ci si piange addosso a dir questo, come ammonisce il presidente Napolitano? Si piangeva addosso Oscar Luigi Scalfaro quando decise di ricordare i valori di una repubblica ferita dalla strage di Capaci chiedendo a tutti di fare il loro mestiere e il loro dovere senza parate lungo il foro romano? Io credo di no.
E non credo che si possa rinunciare a ragionare su altri costi, altre spese, altre urgenze senza considerarle – come sempre – fuori tema. La protezione civile ci dice che il danno quantificato di trent’anni di eventi sismici supera abbondantemente i cento miliardi di euro, senza considerare il costo delle vite umane e la perdita inestimabile del patrimonio artistico finito in macerie, anno dopo anno. La stessa protezione civile ci spiega che mettere in sicurezza l’Italia costerebbe non più di venti-venticinque miliardi, meno di un quarto dei danni subiti e pagati in questi anni.
Cosa c’entrano i terremoti con la parata del due giugno? Nulla, Dio ce ne scansi. E non c’entrano nulla nemmeno con le pazze spese per l’acquisto dei novanta F35 che andranno ad abbellire la nostra collezione di cacciabombardieri. I terremoti non c’entrano con gli ottanta miliardi che il paese versa obbediente ogni anno nelle tasche dei corrotti e dei corruttori, in attesa che l’avvocato Ghedini dia il via libera a una legge anticorruzione. I terremoti non c’entrano con i centottanta miliardi che i furbetti sottraggono allo stato ogni anno evadendo le tasse. I terremoti non c’entrano con nulla, ci mancherebbe. Ma allora, o ci limitiamo a fare sacrifici agli dei come i Maya per tener lontane quelle scosse dalle nostre vite oppure decidiamo che questi denari da qualche parte vadano recuperati. Anche, perché no?, dalle parate militari del due giugno.
Non è andata così quest’anno: pazienza. Ma siccome sono un inguaribile ottimista, sogno che il presidente che verrà si affacci dai balconi del suo palazzo per dire che la Repubblica la celebreremo ospitando nei giardini del Quirinale i trecento precari che lavorano all’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia e che per mestiere (non certo per stipendio ricevuto) dovrebbero aiutarci a prevenire i disastri. Quell’istituto ha i fondi bloccati da dieci anni: ricerca e prevenzione si fanno come si può, arrabattandosi o chiedendo un supplemento di senso di responsabilità a chi vi lavora. La Repubblica oggi sono anzitutto loro.
Claudio Fava
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