L’assassinio di donne è all’ordine del giorno, come cronaca di quotidiana, efferata violenza di uomini sulle donne. Atavica pulsione maschile, spesso in agguato tra le mura domestiche più che nei luoghi – lo ripetiamo ad ogni femminicidio – esposti o poco protetti delle metropoli. E pulsione densa, viene subito da dire ai più, di tutti gli arcaismi immaginabili e ipotizzabili, un male dei primordi delle relazioni tra i sessi, che la modernità dei diritti, l’emancipazione delle donne, la libertà femminile non sono riusciti a debellare. Ma le cose non stanno proprio così ed è fuorviante attenersi allo schema interpretativo che mette in primo piano come spiegazione il carattere arcaico della violenza maschile, la logica patriarcale ad essa sottesa.
Uno schema di questo genere è in realtà nient’altro che una sorta di meccanismo giustificatorio e liberatorio, che impedisce di guardare più da vicino le questioni, nascondendole dietro l’indecifrabile cortina di un’ incombenza che vien da altri mondi e epoche e qualche volta esce fuori, così, come un male della natura. E contro cui dunque quasi nulla di veramente risolutivo si può fare, se non invocare la moltiplicazione dei dispositivi di sicurezza a protezione dell’incolumità delle donne. Ma a che servono misure di questo genere quando la violenza è quella della casa dove si condivide una storia d’amore nata o andata a male o all’improvviso impazzita come la maionese e quando la mano assassina è quella di un uomo con cui condividi quel tratto della tua vita? Atavica pulsione maschile sicuramente: su questo aspetto non c’è molto da dire, la storia delle relazioni tra i sessi ce lo racconta fin nei dettagli. Espressione tuttavia, questa pulsione, non di un’epoca arcaica ma in tutto e per tutto della nostra epoca, delle sue contraddizioni e dilemmi, delle sue libertà e strettoie, dei suoi passi avanti e delle sue regressioni.
Riprendo un passaggio contenuto nell’articolo di Celeste Costantino intitolato “La fortuna di non essere uccisa”, del 4 aprile scorso. Il passaggio mette a fuoco un aspetto a mio giudizio di grande importanza, che contribuisce ad affrontare il problema dal verso giusto. Scrive Celeste che“aumentano le violenze fra le giovani generazioni e la maggior parte delle uccise quest’anno non aveva superato i 35 anni”. In tempi di crisi, argomenta ancora Celeste, “l’umanità che ci troviamo di fronte è un’umanità abbrutita, di sconvolgimento dei ruoli. Se da una parte lo stato di precarietà avvicina i ragazzi e le ragazze e li mette nelle condizioni di ragionare intorno ad un’idea indifferenziata di cittadinanza, dall’altra parte la condizione “nuova” per i giovani uomini di non rispecchiare il modello materiale del padre – il ruolo che gli è sempre spettato nella società – porta con sé un lutto senza elaborazione con dentro un grande carico di violenza.
Oggi l’unica “cosa” che puoi possedere è un’altra persona.” Penso che si debba partire proprio da qui, perché qui, nel lutto non elaborato di qualcosa che si è perso senza sapere neanche che cosa fosse ma che ti performava l’esistenza e dava ordine alle cose della tua vita, proprio in questo consiste il nocciolo duro della questione. L’amore assassino che muove oggi la mano maschile non è il frutto velenoso dell’ordine patriarcale ma, al contrario, della dissoluzione di quell’ordine. La violenza maschile contro le donne è indizio oggi non del patriarcato, ma della sua crisi. Il lessico lo dice, perché le parole mettono in luce non solo la cornice e l’affresco di una fase storica ma quello che c’è dietro, soprattutto le parole nuove. inventate, riacchiappate, stanno a indicare i passaggi e le svolte, soprattutto quelle radicali.
L’affermarsi, per esempio, di una parola inedita e acuminata come “femminicidio” è emblematico: parola impensata e impensabile in epoca di dominio patriarcale, con le donne prive di soggettività giuridica e statuto morale, minus habentes da indirizzare, controllare, punire se necessario. Violenza sulle donne legittima, dunque, con quell’ordine, perché le donne dovevano fare quello che dovevano fare: punto e a capo. Stare al loro posto. E se le cose non quadravano la potestà maschile era legittimata a intervenire. Sino a un certo punto? Niente affatto, perché, in ogni caso la riprovazione sociale era sempre contro la donna che disobbediva. E’ con la crisi di quell’ordine, di quella potestà, che la violenza contro una donna, l’assassinio di una donna vengono riconosciuti per quello che sono. L’hanno chiamata così le donne in primo luogo, non accettandola più come qualcosa di naturalmente connesso all’esercizio di un’autorità riconosciuta. Potere maschile considerato invece arbitrario, lesivo della dignità e autonoma soggettività femminile.
Ma è proprio la sfaldamento dell’autorità maschile, non sostituita da un altro modo di approcciarsi al mondo e alle relazioni con l’altro sesso, che alimenta la società del disagio maschile. Non tutti assassini di donne, ovviamente, ma tutti, salve rare eccezioni, incapaci di farsi carico del problema come di una questione che li riguarda sul piano sociale e simbolico, se non, va da sé su quello giudiziario.
La crisi del patriarcato ha trovato gli uomini muti e incapaci finanche di capire la natura profonda delle trasformazioni dei rapporti tra i sessi e la natura nuova e fuori norma della violenza maschile. Per loro, per tutti i maschi, quell’ordine non era il frutto di una complessa costruzione storico-sociale e di antropologia umana, ma una sorta di stato naturale delle cose, interiorizzato e vitale per il loro stare al mondo. E’ come se si fosse dissolta la tutelante coperta di Linus. Poche voci intermittenti e molto silenzio. Ciò che viene chiamata violenza sulle donne si estende, si allarga, a misura che le donne stesse acquisiscono libertà e accesso a ruoli di potere, mettendo in discussione molte cose.
Come sottolinea Celeste Costantino, questa violenza penetra a guastare i rapporti delle generazioni più giovani, quelle che dovrebbero costruire le basi di una nuova civiltà delle relazioni tra i sessi. Libertà e potere femminili fanno paura e non a caso la violenza maschile si esprime anche nella misoginia di leggi repressive e lesive anche della libertà sessuale e riproduttiva e in forme di regressioni culturali sempre dietro l’angolo, in formule di giustificazione dei femminicidi che dovrebbero inquietare e suscitare riprovazione. E invece passano. “L’ha fatto per amore”. Nel frattempo impotenza e frustrazione subentrano anche nei giovani maschi, di fronte alla perdita non elaborata di un’autorità che una volta era legittima – quando famiglia e comunità sociale gravitavano intorno alle figure di capi maschili – e ora non conta o conta se la donna l’accetta e la condivide.
E’ da qui che bisognerebbe ricominciare a ragionare, ipotizzare, sperimentare, soprattutto tra i più giovani, ragazze e ragazzi. Farne un tema di narrazione, rappresentazione, sfida dei giovani maschi nel rapporto con le loro coetanee e con le donne in generale. Salve ovviamente tutte le misure che possano aiutare ogni donna che ne abbia bisogno a scampare al suo aguzzino. E possibilmente a prevenire.
Se non da loro, dai giovani di oggi, da chi può venire un passo decisivo a farne un problema di tutti, della società, delle relazioni che contano per il presente e il futuro, e non soltanto delle vittime?
Elettra Deiana