Se i giovani si organizzano, si impadroniscono di ogni ramo del sapere e lottano con i lavoratori e gli oppressi, non c’è scampo per un vecchio ordine fondato sul privilegio e sull'ingiustizia. Enrico Berlinguer

mercoledì 25 aprile 2012

Una memoria senza sconti


In un paese diviso non per pregiudizi ideologici ma per la realtà delle cose, è difficile che la memoria unisca tutti. E forse è un bene che sia così. E’ un bene che quest’anno il 25 aprile a Roma non abbia tra gli ospiti poco desiderati Alemanno e la Polverini. E’ un bene che l’Anpi abbia scelto di non corteggiare alcuna retorica spiegando al sindaco e alla presidente della regione che il giorno della Liberazione è un giorno di scelte: o si sta dalla parte della democrazia e dell’antifascismo o si ammicca ai giovani fascisti di borgata, ai saluti romani di casa Pound, al circo degli amici camerati piazzati a dirigere il sottogoverno della capitale e della regione come vecchi democristiani.

L’Italia oggi è un paese libero ma diviso. E il 25 aprile serve a ricordarci entrambe le condizioni: il prezzo pagato 67 anni fa per dirci oggi liberi e il peso di quelle divisioni che rendono insostenibile e umiliante l’esistenza per molti italiani. Se tre milioni di disoccupati hanno cronicizzato la loro rassegnazione e non cercano più un’occupazione, se le dieci famiglie più ricche del paese valgono economicamente – redditi, proprietà, rendite – come tre milioni di famiglie, se lo “spread” (quello vero, inciso sulla carne viva dell’esistenza) continua a divaricare come un forcipe l’Italia allontanando inesorabilmente chi ha sempre di più e chi non ha affatto, il 25 aprile deve farsi carico anche di questo.E deve proporre gesti, scelte, parole di liberazione, qui ed ora, dalle condizioni di una nazione non solo sempre più povera ma anche più diseguale.

Il 25 aprile parla all’Italia ma racconta anche l’Europa. Il governo delle destre, da Sarkozy alla Merkel, da Cameron a Monti, è chiamato a fare i conti col fallimento del proprio progetto politico. Un progetto diffuso, destinato a trasformare i diritti in merce, a sottomettere le pratiche della democrazia alle speculazioni delle borse, a trasformare il progetto civile e sociale dell’integrazione europea nel governo indiscusso della sua banca centrale. Un primo segnale è arrivato dalla Francia. Altri segni, altri gesti andranno costruiti con pazienza ovunque. Anche restituendo intransigenza alla memoria della resistenza e della liberazione: senza sconti per nessuno.

Claudio Fava

lunedì 23 aprile 2012

Vive la gauche!


La prima impressione che viene guardando i risultati del primo turno delle elezioni presidenziali in Francia è che tanta gente è andata a votare. La temuta astensione di massa non si è manifestata e, probabilmente, i dati che la prevedevano incorporavano una quota di indecisi che alla fine hanno deciso di mobilitarsi. Penso che il motivo prevalente, in tempi di crescente antipolitica, sia dovuto alla nettezza e articolazione delle proposte politiche in campo. La prima considerazione, quindi, riguarda la necessità di tener viva la competizione democratica consentendo l’effettivo esercizio della scelta elettorale tra opzioni ben distinte, a differenza di tentazioni neoautoritarie basate sulla convergenza forzosa, magari in grandi coalizioni, che sequestrano la possibilità effettiva di scegliersi il proprio programma politico.

La seconda osservazione è certamente relativa al crollo di Sarkozy. Due milioni di voti persi rispetto al voto di cinque anni fa rappresentano una bocciatura senza appello. Più che l’aritmetica che somma i voti delle destre è questo il dato che, probabilmente, segnerà anche il secondo turno. I francesi hanno bocciato il mix sarkozista di nuova destra populista in patria e rigorista, persino in asse con la Germania di Angela Merkel, in Europa. Il presidente neogollista ha squassato la politica francese, oscillando tra posizioni estremiste di destra contro rom, migranti e “racaille” delle banlieu e occhieggiamenti alle elites economiche e culturali. Dopo cinque anni il giovane e “nuovo” Sarkò appare logoro e incerto: dalle amicizie pericolose di Ben Alì alla guerra brutale in Libia, dal profilo “americano” dell’era pre Obama al vanto di aver salvato la Francia dalla crisi (ma in realtà il paese non ne è stato ancora investito con la forza dei vicini mediterranei). Anche la gestione molto decisa ed efficace della tragedia di Tolosa è apparsa fuori tempo massimo per restituire l’allure da uomo deciso oramai perduta.

Il risultato di Hollande è ottimo. Passare il primo giro in testa vuol dire fare la corsa e, vista la crescente sfiducia nel presidente uscente, è sempre più probabile che, come indicano tutti i sondaggi, la Francia rielegga un socialista all’Eliseo, il secondo Francois. Hollande ha avuto il merito di resistere alla lunghissima campagna cominciata con le primarie. Ha attraversato indenne il caso Strauss Kahn, le tensioni interne al Ps, la lunghezza stessa della campagna che lo stava logorando, evidenziandone i limiti di leadership carismatica, mentre stava sorgendo l’astro di Melenchon. Il suo merito, quindi è stato quello di costruire un programma credibile e di sinistra, dalla politica fiscale alla revisione del Fiscal compact passando per le proposte di assunzioni nel campo della scuola, facendo la campagna sui contenuti piuttosto che sull’apparire “personaggio”: il contrario di ciò che fece Segolene cinque anni fa. Ciò che a Hollande è stato rimproverato, la sua eccessiva seriosità, si è rivelata una “forza tranquilla” che mi auguro sbarchi nel più alto scranno della Republique.

Eppure, il secondo turno dipenderà dagli elettori che hanno fatto altre scelte, visto che in Francia il sistema a doppio turno è stato pienamente introiettato e non mette in crisi il principio bipolare. In questo campo fa impressione l’affermazione di madame Le Pen, che raggiunge quasi il 20%. è il più alto risultato di sempre per il Fronte Nazionale, più alto di quello raggiunto dal vecchio Le Pen nel 2002 che lo portò fino al ballottaggio con Chirac. È un dato davvero straordinario, inquietante e sorprendente. Di fatto Marine Le Pen è oramai candidata alla leadership della destra francese nel suo complesso. L’ho ascoltata e letta molte volte: è brillante, moderna, senza cedimenti da parvenù, senza la patina del suo coriaceo e terrificante padre, netta nelle prese di posizione. È la destra che fa più paura, poiché può diventare, magari tra cinque anni, persino presidente della civilissima Francia. Marine Le Pen ha fatto il pieno dei voti persi da Sarkozy e altri ne ha presi da possibili astensionisti. La sua durezza nazionalista e xenofoba è stata porta con uno stile asciutto e credibile e, probabilmente, molti elettori della destra avrebbero voluto proprio lei al ballottaggio contro Hollande. È improbabile che a questo punto, oscenda sul terreno della contrattazione politica, magari per qualche seggio in parlamento in condominio con l’Ump. È più facile che scelga di non dare indicazioni esplicite, mettendosi alla finestra e iniziando a lavorare per la grande scalata di domani. La nuova destra è uno spettro che s’aggira per l’Europa e Le Pen ne è la punta di lancia.

Buona è certamente l’affermazione di Melenchon. Il suo iniziale 5% nei sondaggi si è più che raddoppiato, anche se non ha mantenuto le promesse dei sondaggi più favorevoli (che sono arrivati fino al 14/15%) e soprattutto delle piazze che si sono riempite in una campagna realmente trionfale. Melenchon aveva puntato a contendere al Fn il voto dei ceti ultrapopolari più colpiti dalla crisi e dalle paure della crisi. Questa sfida l’ha persa, ma è stato comunque fondamentale averla ingaggiata, soprattutto in prospettiva. È invece riuscito nel colpo del voto utile. Sì, priprio il candidato che più di ogni altro ha denunciato il ricorso al voto utile da parte di Hollande (che in definitiva non c’è stato) è riuscito ad attrarre i voti delle forze di estrema sinistra (che hanno sempre raggiunto complessivamente risultati a due cifre), risultando l’interprete più credibile del peso politico gauchista. Melenchon è riuscito quindi a convincere una parte significativa dell’elettorato a “spostare a sinistra” l’asse della prossima presidenza ed infatti ha subito fatto un appello al voto “contro” Sarkozy, certo non potendo più aspirare a ruoli di primissimo piano (si è parlato persino della presidenza del consiglio ad un certo punto) ma di certo ad un ottimo accordo per le prossime legislative. Sul fronte Hollande si è subito collocata Eva Jolie, la verde che non è mai decollata e che è riuscita a strappare poco più del 2%, ma soprattutto che non ha mai imposto nessun tema ambientalista durante la campagna.

Infine, ciò che resta del centrismo si è riconosciuto in Bayrou. Il candidato centrista non ha nessun potere di influenza sul suo elettorato e quindi, secondo stime e osservatori, gli elettori centristi voteranno in maggioranza per Hollande o si asterranno.

Certo è che i centristi di casa nostra non potranno neppure far finta di enfatizzare un dato che, pur raggiungendo un onesto 9%, risulta politicamente del tutto irrilevante, al massimo mantenendo un interesse di tipo elettorale.

Per il secondo turno la partita sarà comunque aperta. La Francia si è scoperta mai così di destra (ma solo se si sommano i dati di Sarkozy e di Le Pen) eppure pronta ad eleggere un socialista. Del resto anche nel 2002, all’epoca dello sconcertante ballottaggio Chirac Le Pen, il voto della sinistra era maggioritario ma troppo diviso e quindi Chirac raccolse un plebiscito di voti di sinistra e “repubblicani”. Anche oggi vincerà chi saprà unire più anime, più che differenti partiti. La sensazione forte è che Sarkozy abbia troppo diviso per riunificare un fronte in due settimane e che, invece, Hollande abbia abilmente tessuto una trama che lo ha reso il naturale rappresentante della sinistra francese, ma non solo. Noi abbiamo tifato per Hollande al primo turno e, a maggior ragione, lo faremo al secondo. Confidiamo in una vittoria che apra la strada alla sinistra in Francia, alla rottura del patto delle destre egemoni in Europa (sia sul versante della Merkel che su quello della delirante lettera dei 12 sulla crescita voluta da Monti e Cameron) e speriamo anche ad un sussulto di ragionevolezza per la politica italiana. Se puoi scegliere puoi sperare di cambiare e non è detto che il cambiamento non sia un progresso. Se non si può scegliere, ingabbiati dai Monti e dalle ABC, non puoi sperare di cambiare ma solo di “scassare”.


Gennaro Migliore

martedì 17 aprile 2012

"L’antipolitica ci fa fare un pauroso salto indietro"










"La ripoliticizzazione dei partiti e la loro rifondazione deve passare attraverso un nuovo agire collettivo in grado di restituire un messaggio di speranza". E’ questa la ricetta di Nichi Vendola contro l’antipolitica che monta nel Paese. Per niente ammaccato dalle notizie che lo vedono indagato il governatore pugliese è più che mai intenzionato a rilanciare l’azione politica del centrosinistra.

“Dobbiamo interrompere questo cortocircuito antropologico con una coalizione di centrosinistra che sia una grande alleanza tra politica e nuove generazioni. A settembre convochiamo gli Stati generali del futuro e riconsegnamo un messaggio di nuova prospettiva”.
Vendola, secondo lei bisogna rifondare i partiti. Secondo Angelo Panebianco invece, andrebbe rivisto il loro ruolo: non piu’ principi, ma sherpa al supporto di coloro che si sfidano sul piano elettorale. Che ne pensa?
“Non sono d’accordo. Dobbiamo partire dalla crisi che c’e’ in Italia e in Europa per capire dove si forma l’onda melmosa dell’ antipolitica che rischia di montare e che rappresenta un pericolo per
il futuro dello stesso vecchio Continente. Noi siamo in una fase in un cui il mix micidiale di disoccupazione di massa, recessione e caduta libera della credibilita’ della politica rischia di segnare un drammatico punto di cesura rispetto alle narrazioni civili e democratiche che hanno plasmato la nostra storia dal 1945.

Crisi della politica e crisi sociale: c’e' davvero il rischio di un salto nell’abisso per la democrazia?
«Purtroppo ci sono precedenti. Crisi sociale e crisi democratica in Europa nel Novecento hanno partorito il fascismo».

Non credera’ che siamo di nuovo di fronte a spinte di quel tipo?
«Evocare questo precedente, sia chiaro, non deve servire a nevrotizzare la discussione ma a rendere piu’ approfondita l’analisi di questa crisi. La spinta di nuovi populismi nazionali si aggancia allo smarrimento di grandi porzioni del Continente e puo’ scommettere sullo smottamento del ceto medio e la precarizzazione della vita produttiva delle nuove generazioni. L’antipolitica puo’ essere l’incubazione di una paurosa regressione, in forme modernissime si puo’ prospettare un vertiginoso salto indietro perche’ la globalizzazione senza regola ha trasformato la politica in una contesa rumorosa e talvolta priva di oggetto».

Il ministro Riccardi individua nei partiti la responsabilita’ di non aver saputo leggere e quindi governare questa globalizzazione.
«Con la globalizzazione la politica si e’ fatta paurosamente debole e la finanza paurosamente forte, mentre le destre hanno costruito il circolo del loro consenso mettendo insieme la baldanzosa
apologia del primato della finanza globale e il mito delle piccolo patrie. Hanno messo in atto la predicazione razzista, il paradigma della paura fondata sull’ evocazione di fantasmi della diversita’. Il punto di svolta e’ che l’Europa rischia di spezzarsi nella propria spina dorsale. Non c’e' più l’ Europa del welfare, di un racconto civile e sociale. E’ la prima volta che in Italia, ad esempio, le giovani generazioni si sentono globalmente escluse da un circuito produttivo, il ceto medio si va restringendo. In questo contesto i partiti sono stati arroganti perche’ deboli, voraci perche’ contavano poco».

Da dove si deve ripartire, allora?
«I partiti devono ricominciare ad affermare un proprio punto di vista autonomo, ripartendo dal concetto di bene comune e abbandonando questo asservimento alle lobby e ai gruppi di potere».

In realtà le vicende Lusi e Lega hanno dimostrato che molto spesso e’ stato l’ interesse personale a determinare l’agire dei alcuni politici.
«La domanda che bisogna porsi e’ come mai vent’anni dopo tangentopoli siamo allo stesso punto? Forse perche’ vent’anni fa la corruzione veniva percepita come una patologia mentre oggi viene percepita come la fisiologia della vita pubblica. Ma dobbiamo raccontare tutta la verita’: se nella politica c’e’ chi e’ corrotto vuol dire che nella societa’ c’e' chi corrompe ed aver fatto della politica l’unico imputato vuol dire non voler capire quanto profondo sia il guasto. Ci sono pezzi del sistema d’ impresa, delle corporazioni, della burocrazia che hanno assediato la politica per interessi privati e non collettivi. Nella misura in cui tutto e’ mercato, tutto ha un prezzo, anche la politica si e’ organizzata come mercato elettorale tanto e’ vero che le campagne elettorali sono diventate giostre faraoniche di spreco di risorse».

E questo e’ uno temi su cui si dibatte di piu’. C’e’ chi sostiene che bisognerebbe abolire i finanziamenti pubblici.
«Si dovrebbe stabilire un tetto massimo di spesa per le campagne elettorale, si deve procedere subito con una legge sulla trasparenza dei bilanci, che devono dimagrire e si deve tornare ad un
regime di sobrieta’. Ma quando abbiamo fatto tutto questo rischiamo di aver operato in superficie se la politica non si riappropria di un suo punto di vista autonoma su modello di sviluppo, crescita, etica, organizzazione dei beni pubblici. Spetta alla politica indicare i vincoli e limiti di una crescita economica che non può mai assumere contorni di neoschiavismo e di arretramento dei diritti universali».

Intanto, mentre i partiti si interrogano su come riacquistare la fiducia dei cittadini Beppe Grillo avanza.
«L’antipolitica non e’ l’antidoto alla cattiva politica e’ la sua variante più pericolosa perchè mette sul piedistallo l’epopea e la retorica di un demiurgo, di una personalità che propone il proprio carisma come una sorta di esorcismo e attraverso le bestemmie salvifiche pensa di voler far sparire il mondo dei cattivi. Per questo serve un’alternativa forte di buona politica che metta insieme il valore della democrazia e la centralità di una giustizia sociale».

Intervista a Nichi Vendola uscita oggi su L’Unità a cura di Maria Zegarelli.


lunedì 16 aprile 2012

L'amore assassino











L’assassinio di donne è all’ordine del giorno, come cronaca di quotidiana, efferata violenza di uomini sulle donne. Atavica pulsione maschile, spesso in agguato tra le mura domestiche più che nei luoghi – lo ripetiamo ad ogni femminicidio – esposti o poco protetti delle metropoli. E pulsione densa, viene subito da dire ai più, di tutti gli arcaismi immaginabili e ipotizzabili, un male dei primordi delle relazioni tra i sessi, che la modernità dei diritti, l’emancipazione delle donne, la libertà femminile non sono riusciti a debellare. Ma le cose non stanno proprio così ed è fuorviante attenersi allo schema interpretativo che mette in primo piano come spiegazione il carattere arcaico della violenza maschile, la logica patriarcale ad essa sottesa.

Uno schema di questo genere è in realtà nient’altro che una sorta di meccanismo giustificatorio e liberatorio, che impedisce di guardare più da vicino le questioni, nascondendole dietro l’indecifrabile cortina di un’ incombenza che vien da altri mondi e epoche e qualche volta esce fuori, così, come un male della natura. E contro cui dunque quasi nulla di veramente risolutivo si può fare, se non invocare la moltiplicazione dei dispositivi di sicurezza a protezione dell’incolumità delle donne. Ma a che servono misure di questo genere quando la violenza è quella della casa dove si condivide una storia d’amore nata o andata a male o all’improvviso impazzita come la maionese e quando la mano assassina è quella di un uomo con cui condividi quel tratto della tua vita? Atavica pulsione maschile sicuramente: su questo aspetto non c’è molto da dire, la storia delle relazioni tra i sessi ce lo racconta fin nei dettagli. Espressione tuttavia, questa pulsione, non di un’epoca arcaica ma in tutto e per tutto della nostra epoca, delle sue contraddizioni e dilemmi, delle sue libertà e strettoie, dei suoi passi avanti e delle sue regressioni.

Riprendo un passaggio contenuto nell’articolo di Celeste Costantino intitolato “La fortuna di non essere uccisa”, del 4 aprile scorso. Il passaggio mette a fuoco un aspetto a mio giudizio di grande importanza, che contribuisce ad affrontare il problema dal verso giusto. Scrive Celeste che“aumentano le violenze fra le giovani generazioni e la maggior parte delle uccise quest’anno non aveva superato i 35 anni”. In tempi di crisi, argomenta ancora Celeste, “l’umanità che ci troviamo di fronte è un’umanità abbrutita, di sconvolgimento dei ruoli. Se da una parte lo stato di precarietà avvicina i ragazzi e le ragazze e li mette nelle condizioni di ragionare intorno ad un’idea indifferenziata di cittadinanza, dall’altra parte la condizione “nuova” per i giovani uomini di non rispecchiare il modello materiale del padre – il ruolo che gli è sempre spettato nella società – porta con sé un lutto senza elaborazione con dentro un grande carico di violenza.

Oggi l’unica “cosa” che puoi possedere è un’altra persona.” Penso che si debba partire proprio da qui, perché qui, nel lutto non elaborato di qualcosa che si è perso senza sapere neanche che cosa fosse ma che ti performava l’esistenza e dava ordine alle cose della tua vita, proprio in questo consiste il nocciolo duro della questione. L’amore assassino che muove oggi la mano maschile non è il frutto velenoso dell’ordine patriarcale ma, al contrario, della dissoluzione di quell’ordine. La violenza maschile contro le donne è indizio oggi non del patriarcato, ma della sua crisi. Il lessico lo dice, perché le parole mettono in luce non solo la cornice e l’affresco di una fase storica ma quello che c’è dietro, soprattutto le parole nuove. inventate, riacchiappate, stanno a indicare i passaggi e le svolte, soprattutto quelle radicali.

L’affermarsi, per esempio, di una parola inedita e acuminata come “femminicidio” è emblematico: parola impensata e impensabile in epoca di dominio patriarcale, con le donne prive di soggettività giuridica e statuto morale, minus habentes da indirizzare, controllare, punire se necessario. Violenza sulle donne legittima, dunque, con quell’ordine, perché le donne dovevano fare quello che dovevano fare: punto e a capo. Stare al loro posto. E se le cose non quadravano la potestà maschile era legittimata a intervenire. Sino a un certo punto? Niente affatto, perché, in ogni caso la riprovazione sociale era sempre contro la donna che disobbediva. E’ con la crisi di quell’ordine, di quella potestà, che la violenza contro una donna, l’assassinio di una donna vengono riconosciuti per quello che sono. L’hanno chiamata così le donne in primo luogo, non accettandola più come qualcosa di naturalmente connesso all’esercizio di un’autorità riconosciuta. Potere maschile considerato invece arbitrario, lesivo della dignità e autonoma soggettività femminile.

Ma è proprio la sfaldamento dell’autorità maschile, non sostituita da un altro modo di approcciarsi al mondo e alle relazioni con l’altro sesso, che alimenta la società del disagio maschile. Non tutti assassini di donne, ovviamente, ma tutti, salve rare eccezioni, incapaci di farsi carico del problema come di una questione che li riguarda sul piano sociale e simbolico, se non, va da sé su quello giudiziario.

La crisi del patriarcato ha trovato gli uomini muti e incapaci finanche di capire la natura profonda delle trasformazioni dei rapporti tra i sessi e la natura nuova e fuori norma della violenza maschile. Per loro, per tutti i maschi, quell’ordine non era il frutto di una complessa costruzione storico-sociale e di antropologia umana, ma una sorta di stato naturale delle cose, interiorizzato e vitale per il loro stare al mondo. E’ come se si fosse dissolta la tutelante coperta di Linus. Poche voci intermittenti e molto silenzio. Ciò che viene chiamata violenza sulle donne si estende, si allarga, a misura che le donne stesse acquisiscono libertà e accesso a ruoli di potere, mettendo in discussione molte cose.

Come sottolinea Celeste Costantino, questa violenza penetra a guastare i rapporti delle generazioni più giovani, quelle che dovrebbero costruire le basi di una nuova civiltà delle relazioni tra i sessi. Libertà e potere femminili fanno paura e non a caso la violenza maschile si esprime anche nella misoginia di leggi repressive e lesive anche della libertà sessuale e riproduttiva e in forme di regressioni culturali sempre dietro l’angolo, in formule di giustificazione dei femminicidi che dovrebbero inquietare e suscitare riprovazione. E invece passano. “L’ha fatto per amore”. Nel frattempo impotenza e frustrazione subentrano anche nei giovani maschi, di fronte alla perdita non elaborata di un’autorità che una volta era legittima – quando famiglia e comunità sociale gravitavano intorno alle figure di capi maschili – e ora non conta o conta se la donna l’accetta e la condivide.

E’ da qui che bisognerebbe ricominciare a ragionare, ipotizzare, sperimentare, soprattutto tra i più giovani, ragazze e ragazzi. Farne un tema di narrazione, rappresentazione, sfida dei giovani maschi nel rapporto con le loro coetanee e con le donne in generale. Salve ovviamente tutte le misure che possano aiutare ogni donna che ne abbia bisogno a scampare al suo aguzzino. E possibilmente a prevenire.

Se non da loro, dai giovani di oggi, da chi può venire un passo decisivo a farne un problema di tutti, della società, delle relazioni che contano per il presente e il futuro, e non soltanto delle vittime?

Elettra Deiana

giovedì 5 aprile 2012

Una riforma contro il lavoro











Valuteremo nelle prossime ore con maggior dettaglio il testo della riforma Fornero-Monti. In ogni caso vi è nei fatti un problema di metodo gigantesco, la riforma Fornero nasce e si sviluppa nei sottoscala della politica, in accordicchi tra i partiti che sostengono in Parlamento il governo Monti, fuori da un confronto reale con il Paese e le forze sindacali. Il sindacalismo italiano potrebbe uscire indebolito ed umiliato da questa riforma.

Inoltre si mette la parola fine sulla straordinaria vicenda del diritto del lavoro italiano come diritto asimmetrico, capace cioè di riconoscere e tutelare il soggetto più debole – cioè il lavoratore – nel rapporto con l’impresa.

La cura, per quello che Monti e Fornero chiamano il ” dualismo perverso”, del mercato del lavoro, ovvero la difformità di tutele fra lavoratori stabili e lavoratori precari, è infatti risolta tout court con un livellamento al ribasso, scegliendo non di ampliare le garanzie ma di ridurle a chi le aveva conquistate.

In particolare riteniamo sbagliata la riforma per le modalità con cui affronta alcuni snodi fondamentali:

- l’articolo 18 per come lo abbiamo conosciuto non esisterà più, il reintegro è reso quasi impossibile e lo spazio d’intervento del giudice relativamente alla insussistenza non è ben definito. La questione è clamorosamente confermata dallo stesso Monti, che si è affrettato a tranquillizzare le aziende specificando che “il reintegro è riferito a fattispecie estreme ed improbabili”. Su questo punto si allude anche ad un cambio sostanziale di pelle e ruolo del sindacato, protagonista della conciliazione e anche della presa in carico per la ricollocazione del dipendente (insieme alle agenzie di somministrazione).

- L’apprendistato dovrebbe diventare il contratto prevalente per l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Intanto la riforma mette le mani avanti: per i prossimi tre anni su dieci apprendisti l’azienda avrà l’obbligo di assumerne tre. Inoltre in barba alla centralità del contratto a tempo indeterminato ogni tre assunti due potranno essere in apprendistato (oggi il rapporto è uno a uno). In ogni caso l’apprendistato di cui stiamo parlando è quello di Sacconi, normato dal testo unico decreto legislativo 187 del 2011 che prevede tra le altre cose una sostanziale riduzione della parte formativa e addirittura l’autocertificazione delle imprese circa la formazione erogata all’apprendista.

- I contratti a termine non dovranno essere più giustificati con il c.d. “causatone”.

- Persino la norma sulle partita iva rischia di essere un vero pasticcio perché uccide la natura del lavoro indipendente nel ricondurlo alla forma contrattuale dei co.co.pro. Inoltre risulta difficile per un professionista decidere ex ante se un contratto rischia di divenire il 75% delle sue entrate e assumere il profilo della monocommittenza.

- Non viene abolita nessuna delle quarantasei forme contrattuali, nemmeno le più precarie, tra cui il contratto d’inserimento, il lavoro intermittente, la collaborazione a progetto.

- Anzi viene reintrodotta, assente nella precedente bozza, la forma odiosa dell’associazione in partecipazione.

- Nulla per combattere il precariato.

- Nulla sul reddito minimo.

- Nulla sulle politiche per lo sviluppo della nostra economia.

- Sugli ammortizzatori la situazione è drammatica: si passa da un sistema che garantiva, con le diverse forme, uno scivolo che poteva arrivare fino a quattro-cinque anni e il mantenimento del rapporto con l’impresa, ad un sistema che sgancerà immediatamente l’azienda dai lavoratori, lasciandoli totalmente soli con un sostegno economico di pochi mesi a separarli dal dramma della crisi economica e della disoccupazione.

Le cose vanno chiamate con il loro nome, siamo di fronte ad una riforma contro il lavoro. Il governo Monti sotto la spinta di una ideologia feroce, quella del conservatorismo globale, toglie valore al lavoro e lo subordina alle dinamiche macro economiche. Lo Stato nazionale piegato dalla crisi finanziaria scarica le sue difficoltà sul lavoro, le famiglie, le piccole imprese. La riforma Monti Fornero trasforma il diritto al reintegro da regola ad eccezione, monetizza il rapporto di lavoro svalorizzandolo e abbandona le persone che perdono il posto di lavoro al loro destino individuale. Così si abbatte il welfare, o quello che ne rimaneva, e il sistema di protezione sociale costruito nell’Europa del secondo novecento.

Siamo convinti che la mobilitazione sociale e sindacale, il conflitto e la discussione parlamentare possono ancora evitare questa tragedia.

L’alternativa, anche di governo, si costruisce a partire dalle tutele del lavoro, soprattutto in una fase recessiva come quella in corso, da risposte concrete per i precari, da un welfare inclusivo che non lasci nessuno da solo di fronte alla crisi e che si faccia carico delle difficoltà di futuro per i più giovani e per le donne. Questa riforma non porterà neanche un posto di lavoro in più e consegnerà centinaia di migliaia di persone ad un impoverimento progressivo senza prospettive e certezze.

Sinistra Ecologia Libertà ha scelto da tempo da che parte stare, verificheremo nei prossimi giorni cosa farà il resto del centrosinistra.

Massimiliano Smeriglio

lunedì 2 aprile 2012

Piantiamo Bene Comune


Nella mattinata di ieri, domenica I°Aprile, il circolo cittadino di Sinistra Ecologia Libertà ha promosso l'iniziativa "Piantiamo Bene Comune", presso piazza Buccini, meglio nota con il nome di Piazza San Pasquale. Scopo della manifestazione è stato quello di porre all'attenzione dell'amministrazione comunale la centralità degli spazi verdi e la manutenzione delle piazze cittadine. Per l'occasione sono state interrate circa 30 piantine, con l'obiettivo di abbellire una parte della piazza oggetto dell'attacco di giardinaggio.

"Le aree verdi cittadine - ha dichiarato Alessandro Martino, coordinatore di Sinistra Ecologia Libertà - versano in uno stato di completo abbandono. Pensiamo che sia opportuna e necessaria una manutenzione quotidiana del verde pubblico e che, soprattutto, si debbano individuare nuove aree da destinare a parchi cittadini, aree gioco e percorsi vita. Così facendo - ha continuato Martino - si potrà contribuire al miglioramento della vivibilità cittadina, contrastando, in parte, l'inquinamento che gia troppi danni ha causato alla nostra comunità".

Gli attacchi verdi proseguiranno nelle prossime settimane con il chiaro e manifesto intento di promuovere una cultura diffusa, che contrasti il degrado urbano e l'incuria delle aree pubbliche.